Sono passati pochi mesi da quella sera d’autunno a San Siro in cui Pjanić sembrava camminare sulle acque. Contro l’Inter il bosniaco aveva disputato una delle sue migliori partite in bianconero, sfoderando un campionario di giocate fino ad allora sconosciuto, perlomeno ai tifosi juventini: fraseggi ambiziosi, passaggi diretti e verticalizzazioni improvvise con cui mettere in moto Dybala e Ronaldo. Un’assunzione di responsabilità tecnica che – abbinata ad una sorprendente continuità di rendimento – ci aveva fatto credere che fosse finalmente giunta l’ora della sua definitiva consacrazione. Eravamo stati troppo ottimisti.
Perché qualcosa, nel frattempo, è andato storto. Pjanić ha iniziato a collezionare prestazioni sempre meno convincenti, condizionate da un’eccessiva timidezza nella costruzione della manovra e da una malcelata insicurezza nel proteggere la difesa. Un declino ufficializzato dalla panchina su cui si è dovuto accomodare durante il match di ritorno contro l’Inter, prima della pausa causata dall’emergenza sanitaria. Una bocciatura che, a distanza di qualche mese, spiega la scelta di scambiarlo con Arthur Melo. Il prossimo autunno Pjanić lo passerà a Barcellona, lasciando a Busquets il compito di impostare dal basso e a Messi il piacere di battere le punizioni dal limite.
Sono pochissimi i giocatori che lasciano la Juventus dopo quattro stagioni dando l’impressione di non essere diventati più forti e completi rispetto al loro arrivo. Con Pjanić la sensazione è quella di un’enorme opportunità mancata. Un déjà vu che ne ha contraddistinto l’intera carriera, costellata da pochi picchi in mezzo a tanta, troppa mediocrità. Uno spreco inaccettabile per un giocatore potenzialmente irresistibile.
Quali sono le ragioni di questo fallimento? La collocazione tattica datagli da Massimiliano Allegri non lo ha aiutato. Prima del suo arrivo alla Juventus, infatti, Pjanić non aveva mai giocato davanti alla difesa in un centrocampo a 3. A Lione e poi a Roma il bosniaco aveva sempre agito come mezzala di possesso o come vertice avanzato se schierato in coppia in un centrocampo a 4. Una trasformazione che ne ha smorzato la creatività e che non gli ha comunque permesso di acquisire quella “centralità” che uno specialista del ruolo deve possedere. Una centralità che, con l’arrivo di Maurizio Sarri, è addirittura aumentata. Quello del play basso, infatti, è probabilmente il ruolo più importante nell’ideale calcistico del tecnico toscano.
Per i primi due mesi di questa stagione è sembrato che Pjanić potesse interpretare alla perfezione i dettami di Sarri. A partire da dicembre, però, il bosniaco è caduto in letargo. Una “crisi di rigetto” causata anche dalla consueta difficoltà nel mantenere alto il suo rendimento, che in passato si è spesso inabissato con inquietante regolarità nei momenti topici delle competizioni.
L’assenza di “atleti” in mezzo al campo capaci di correre anche per lui gli ha sicuramente impedito di sentirsi a proprio agio nel nuovo ruolo. Una concorso di colpa che spiega almeno in parte il perché di un insuccesso inaspettato.
A trent’anni compiuti Pjanić deve ancora dimostrare come mai il Barcellona abbia deciso di puntare su di lui. Se al suo arrivo alla Juventus il dubbio poteva essere lecito, quattro anni dopo lo è meno. Le perplessità sul suo reale valore sono ancora tutti lì.