L’8 marzo 2006, al minuto 48 di un Milan-Bayern Monaco che i rossoneri stanno dominando ben più di quanto dica il 2-1 sul tabellone luminoso di San Siro, un rimpallo nell’area piccola dei bavaresi tra Demichelis e Ismael fa carambolare il pallone sullo scarpino destro di Filippo Inzaghi, e chi sennò. Il numero 9 rossonero non dovrebbe far altro che appoggiare in rete tanto più che Oliver Kahn, già a terra e in estensione per coprire la più ampia fetta di porta possibile, ha lasciato scoperto uno spazio alla sua sinistra che chiede solo di essere sfruttato: Inzaghi però, per qualche motivo, cicca la palla che si alza, gli sbatte – letteralmente – in una parte indefinita del volto tra naso e fronte e finisce in rete. Vista al replay la scena ha la forza comica di un episodio del Benny Hill Show: al momento del primo impatto (fallito) di Inzaghi con il pallone, Kahn è a mezz’aria e cerca in ogni modo di volgere a proprio vantaggio quell’insperato colpo di fortuna, salvo poi vedersi beffato dal successivo tocco dell’attaccante e travolto da Demichelis sullo slancio in un ultimo, disperato, tentativo di recupero.
Mi sono sempre chiesto come il collerico e rubicondo portierone nativo di Karlsruhe – che, in quella partita, si era già segnalato nel primo tempo per aver urlato qualcosa a Shevchenko dopo un calcio di rigore sbagliato dall’ucraino, salvo poi vedersi infilato un minuto dopo da un suo colpo di testa – abbia resistito alla tentazione di rincorrere Inzaghi ed esibirsi nel cosplay di Sebastiano Rossi con Christian Bucchi. La risposta, probabilmente, sta nella natura stessa dei gol di Inzaghi: gol brutti, sporchi, cattivi – «rapinosi» avrebbe detto Bruno Pizzul – esteticamente sgradevoli nella loro resa stilistica, ma impareggiabili nel loro saper massimizzare il rapporto tra efficacia ed efficienza del singolo gesto. Subire un gol del genere da lui è come subirlo da Del Piero con un tiro a giro sul secondo palo, da Totti con un “cucchiaio”, da Juninho su calcio di punizione da distanza siderale. Qualcosa che, insomma, è nell’ordine naturale delle cose.
C’è stata una stagione, però, in cui la narrazione dei gol “alla Inzaghi” ha subito una brusca variazione. Era il 1998/99 e “Superpippo”, con il peso dell’attacco bianconero a gravare quasi interamente sulle sue spalle, si inventò alcuni dei gol più belli della sua carriera da rapace dell’aria di rigore.
Bello di notte
L’Inzaghi che, nell’estate del 1998, comincia la sua seconda stagione in bianconero è già uno dei migliori attaccanti del panorama italiano e internazionale: a 25 anni è già stato capocannoniere della Serie A ed è reduce da un 1997/98 da 27 reti complessive che gli sono valse la convocazione al Mondiale di Francia in cui, però, ha assistito da semi-spettatore alla staffetta Baggio-Del Piero e all’esplosione dell’amico Christian Vieri, autore di 5 gol in altrettante partite. Paradossalmente il suo unico acuto nella competizione è stato l’assist (!) a Baggio per la rete del 2-0 contro l’Austria nell’ultima gara del girone.
L’inizio di 1998/99, tuttavia, non è così semplice: come se non bastassero i 64 incolori minuti nella finale di Supercoppa Italiana persa contro la Lazio di Eriksson, nelle prime dieci giornate di campionato le reti sono appena quattro, di cui una al Piacenza – nella prima sfida in famiglia al fratello Simone con il quale, due anni dopo, farà coppia per 11 minuti in una grigia amichevole novembrina della Nazionale contro l’Inghilterra decisa dal primo e unico gol azzurro di Gattuso – e altre due in una polemica gara interna contro la Sampdoria del 1 novembre al termine della quale confessa a Franco Costa che «mi dà fastidio che si pensi che tutte le volte che Inzaghi tira in porta dovrebbe far gol».
Ben diverso l’approccio nelle notti europee: il 16 settembre, nella gara d’esordio contro i Turchi del Galatasaray al “Delle Alpi”, nella stesso posto e nella stessa porta – ma non nello stesso stadio – in cui Cristiano Ronaldo si farà applaudire da tutto il mondo, segna la rete dell’1-0 con una splendida semirovesciata volante a dare forma e concretezza all’assist dalla destra di Del Piero; due settimane dopo a Trondheim contro il Rosenborg fa le prove generali di quel che sarà ad Atene 9 anni dopo – con una maglia diversa – deviando in rete il tiro dalla distanza di Davids. Due gol nelle prime due partite che, però, valgono appena due pareggi (2-2 e 1-1) in un girone vissuto tra il grigio di cinque X consecutive e il rosso dei fumogeni dell’ “Aly Sami Yen” di Istanbul, dal quale la Juve riesce ad uscire con l’1-1 al termine di una partita andata molto oltre il campo per i motivi che Marco D’Ottavi ha ben raccontato su Ultimo Uomo. All’ultima giornata, in programma la sera del 9 dicembre, tutto e tutti sono ancora in gioco: il Galatasaray e il Rosenborg sono in testa al girone con 8 punti, la Juventus – che sfida i norvegesi a Torino in un vero e proprio spareggio – segue a quota 5 ma con ampie possibilità di passaggio del turno in caso di vittoria e contemporaneo successo dell’Athletic di Luis Miguel Fernández al “San Mamés” di Bilbao.
L’inizio dei bianconeri è un inno alla tensione e alla paura di non farcela, tanto che al 10′ sono gli ospiti ad avere la prima palla gol, un pallonetto di Jacobsen che Paolo Montero salva sulla linea di porta. Cinque minuti dopo è Inzaghi a mettere tutto a posto: sinistro sbilenco di Amoruso, palla che in qualche modo arriva in area sulle traccia percorsa in verticale dal numero 9 che frappone il corpo tra sé e il gigantesco Otto Bragstad e chiude con il sinistro il diagonale che non può mai uscire. Il raddoppio di Amoruso venti minuti dopo rende il resto della gara l’appendice di ciò che sta accadendo in terra basca: al 43′ Julen Guerrero è già diventato per i tifosi juventini quello che, nella stagione precedente, erano stati Pedrag Djordjevic e la sua punizione del 2-2 in un Olympiakos-Rosenborg che aveva significato passaggio ai quarti come seconda miglior seconda (dei gironi) per differenza reti, ma bisogna comunque vivere un’altra ora con un occhio al campo e un orecchio alla radiolina. Al 90′, però, è ufficiale: il Galatasaray perde a Bilbao, Juventus che passa come prima per due gol di differenza.
Sulle spalle di Superpippo
In campionato, però, la fortuna sembra essersi dimenticata dei campioni d’Italia in carica. La svolta in negativo della stagione si era materializzata l’8 novembre a Udine, un mese prima del redde rationem contro i norvegesi: Zidane aveva segnato l’1-0, Inzaghi aveva siglato il raddoppio “alla Inzaghi”, poi Del Piero si era sbriciolato il ginocchio sinistro e l’Udinese di Guidolin aveva pareggiato nel recupero una partita che era praticamente già persa. Da allora tutto ciò che poteva andare male era andato peggio: quattro sconfitte e un pareggio nelle successive cinque partite – sette gol subiti e nessuno realizzato – il numero 10 fuori fino al termine dell’annata, Zidane che stava cominciando a comprendere come, talvolta, il dio del calcio si possa riprendere (sotto forma di infortuni) quello che ti aveva dato precedentemente (la Coppa del Mondo): «Quest’anno per me è da dimenticare» dirà un girone dopo, con la caviglia destra dolorante a causa della distorsione, al termine di uno Juventus-Udinese deciso, tanto per cambiare, da un bel gol di Inzaghi a tre minuti dalla fine.
Il ritorno alla vittoria arriva solo alla vigilia della sosta natalizia: la tripletta di “Superpippo” alla Salernitana regala a Marcello Lippi delle feste relativamente serene anche se le avvisaglie della fine dell’impero ci sono tutte tanto che, agli inizi di marzo, Maurizio Crosetti scriverà su Repubblica di una profonda spaccatura all’interno dello spogliatoio tra il tecnico e alcuni di quelli che potevano essere considerati come suoi fedelissimi, tra cui un autentico pretoriano come Didier Deschamps.
Il mercato di gennaio porta in dote Henry ed Esnaider ma la sensazione è che, comunque, tutto il peso dell’attacco sia sulle spalle del numero 9. Che, ovviamente, si infortuna a metà gennaio e assiste impotente allo sfacelo di una delle squadre più vincenti di sempre: il 7 febbraio Chiesa e Crespo vandalizzano ciò che rimane della prima Juve lippiana, costringendo il tecnico alle dimissioni e la dirigenza ad anticipare l’arrivo di Carlo Ancelotti. Inzaghi rientra proprio in concomitanza dell’esordio dell’allenatore emiliano sulla panchina bianconera – 25 minuti in un Piacenza-Juventus deciso dalle reti di Mirkovic e Birindelli – e a due settimane dall’andata dei quarti di finale di Champions League contro l’Olympiakos.
Quando, il 3 marzo, i greci si presentano a Torino, Ancelotti ha già derogato ai rigidi schematismi del suo 4-4-2, optando per un 4-3-1-2 in cui Zidane è il giocatore di trama e ordito di una intera fase offensiva che ha in Inzaghi principale finalizzatore e in Conte il primo “shadow striker” di una batteria di centrocampisti di corsa e inserimento quando l’azione si sviluppa sugli esterni. In quel periodo Mediaset è solita mandare in differita la gara del mercoledì che non è riuscita a trasmettere in prime time quindi sono tantissimi i tifosi bianconeri che si mettono davanti alla TV ben oltre le 23 e che vedono la Juventus vincere 2-1 e Inzaghi realizzare la rete dell’1-0 girando al volo, di sinistro, il cross dalla sinistra di Davids: è uno dei gol più belli e meno celebrati della sua carriera, che testimonia la grandissima (e sottovalutata) capacità del bomber piacentino di torcere la caviglia a piacimento per colpire al volo/di controbalzo nella maniera più pulita e precisa possibile mentre corre in parallelo alla linea di porta. Una move replicata, in tono minore, quatto giorni dopo a Marassi nella vittoria in extremis contro la Sampdoria – andata in vantaggio con una rete di Ariel “El Burrito” Ortega desideroso di vendicare Tokyo e il River Plate -, la terza di quattro (in cinque partite) che Ancelotti ottiene nel suo primo mese in panchina.
Il 17 si vola ad Atene per l’ennesima notte da leggenda e da tregenda, complicata ulteriormente dal rigore trasformato al 90′ della gara d’andata da Niniadis. A farla da padrone all’Olympiako Stadio Athinon sono la pioggia, il vento e il tifo incessante degli oltre settantamila in bianco-rosso, che possono esultare già al 12′ per la rete di Gogic su assist di Georgatos (sì, quel Georgatos) a sfruttare la dormita collettiva del trio Iuliano-Montero-Rampulla. È una partita dai contenuti tecnici pressoché nulli – il principale highlight è l’invasione di un cane randagio che ha la brillante idea di espellere le sue deiezioni nel cerchio di centrocampo – ma emotivamente logorante per 21 dei 22 in campo: il ventiduesimo è Antonio Conte da Lecce che all’85’ ha ancora la lucidità di raccogliere il pallone uscito dal rimpallo tra Inzaghi ed Eleftheropoulos e depositarlo in rete spazzando via i fantasmi di 16 anni prima.
In campionato, intanto, i due punti raggranellati tra Roma, Empoli e Bologna spengono ogni velleità di risalita verso le zone altissime della classifica e convincono l’ambiente a puntare tutto sull’Europa che conta: tra i bianconeri e la quarta finale consecutiva c’è il Manchester United di Sir Alex Ferguson. Una grande classica del calcio europeo, tanto da convincere Pepsi a farne il contesto di una serie di commercial di assoluto culto:
Vengeance knows no mercy
Il 7 aprile la Juventus scende in campo a “Old Trafford” con un insolito 4-4-1-1: per contrastare la creatività di Giggs e Beckham sugli esterni, Ancelotti ha scelto di rinforzare le catene laterali con Di Livio messo sulle tracce del formidabile gallese per dar man forte a Zoran Mirkovic e Davids a sinistra per costringere lo “Spice Boy” con il numero 7 a qualche ripiegamento difensivo in più.
La mossa paga i dividendi sperati: al 25′, un taglio esterno-interno ad attaccare lo spazio centrale svuotato dalla giocata “a uscire” di Zidane, permette all’olandese di premiare l’inserimento di Conte che fulmina Smeichel con un sinistro a incrociare preparato da un controllo orientato da punta vera. Già la punta: lasciato da solo a battagliare contro Berg e Stam, Inzaghi disputa una gara di grande sacrificio e abnegazione e, sempre nel primo tempo, sfiora lo 0-2 in ben due occasioni, ricevendo nel secondo caso anche un durissimo rimprovero da Zidane che aspettava a centro area un assist da dover solo spingere in rete.
La ripresa, come prevedibile, si trasforma nell’assedio dei Red Devils: Peruzzi compie un autentico miracolo su un colpo di testa ravvicinato di Giggs, poi un gol annullato a Roy Keane per fuorigioco di Sheringham si trasforma nella miccia che accende definitivamente il match. La resistenza della Juventus è perfino eroica in certi frangenti di quella che assume sempre più i contorni di un’esercitazione di attacco contro difesa che sembra durare un’eternità, spezzata dal guizzo in mischia di Giggs che fa 1-1 al secondo dei quattro minuti di recupero concessi dall’arbitro spagnolo Manuel Diaz Vega. Si tratta di un’impresa a metà che, però, permette alla Juventus di avere due potenziali risultati su tre in vista del ritorno.
Eppure, due settimane dopo, al minuto 12 sembra già non esserci più spazio per calcoli e tatticismi: Inzaghi ha già colpito due volte – la seconda girando attorno a Stam come se fosse la cosa più facile del mondo – sulla strada che porta al Camp Nou di Barcellona.
Poi, però, una cosa va storta.
Poi un’altra.
Poi un’altra ancora.
Fin quando tutto quello che doveva compiersi, si compie. Nel giro di dieci minuti, tra il 24′ e il 34′, Keane e Yorke fanno 2-1 e 2-2 azzerando il risultato sfavorevole di Manchester, nella ripresa Inzaghi prima si vede annullare il terzo gol personale per un fuorigioco evidente poi fallisce una ghiotta occasione dalla stessa mattonella dalla quale aveva segnato al Rosenborg pochi mesi prima, scegliendo di chiudere il sinistro sul primo palo invece di incrociare. A cinque minuti dalla fine è Andy Cole a mettere la parola fine al discorso qualificazione e ad anni di incubi in bianco e nero: finalmente Alex Ferguson è riuscito a battere la squadra che aveva sempre indicato ai suoi come il modello da seguire.
Epilogo
Inzaghi segnerà altre tre volte prima della fine di quell’annata: uno splendido colpo di testa contro la Fiorentina, un tocco sottomisura all’ultima giornata contro il Venezia, un rigore realizzato nel malinconico spareggio per la UEFA contro l’Udinese: totale 20 gol in 42 partite, miglior marcatore di una squadra che, nel momento più importante della stagione più difficile, si era appoggiata in tutto e per tutto a lui e alla sua capacità di fare anche gol belli, anzi bellissimi. Il fatto che al fattore estetico non abbia fatto seguito la concretezza di un trofeo da alzare deve averlo convinto che, in fondo, è meglio segnare a Kahn con un auto-rimpallo che con un sinistro volante all’incrocio dei pali. Oh, alla fine ha avuto ragione lui.