Che approccio usano gli allenatori che praticano un calcio esteticamente appagante? Il loto metodo è poi così diverso da quello dei colleghi?
Ho sempre trovato tutte le discussioni riguardanti il “belgiochismo” assolutamente sterili. Il calcio è uno sport ed in quanto tale è la competizione il succo di tutto, certo non l’estetica. Che poi nella società moderna questa abbia acquisito una posizione predominante portando ad aprire un dibattito anche all’interno del mondo calcistico è comprensibile, ma ciò non può essere di per sé generatore di discussioni feconde.
Mi verrebbe da dire che un allenatore professionista è pagato per ottenere dei risultati, ma limiterei erroneamente il discorso. Non sono solo gli allenatori di professione ad avere come Stella Polare l’ottenimento dei risultati; chiunque svolga quella mansione, anche a livello dilettantistico ed amatoriale, si pone quel fine.
Se quindi il dibattito sorto mesi addietro tra presunti “belgiochisti” ed autodesignati “risultatisti” non ha ragion d’essere, va da sé che anche quello tra “bel gioco” e “giocare bene” non ha senso di esistere. Non tanto perché l’estetica non sia una componente che, permeando il mondo, non esista anche in relazione al calcio; quanto perché se il fine ultimo di qualsiasi squadra è ottenere il risultato migliore possibile diventa automatico che il mezzo per raggiungere questo obiettivo sia il contenuto, non la forma.
Nella mia pur non lunghissima carriera di scout ho avuto modo di osservare anche molti allenamenti, oltre ad una caterva di partite. Questo mi ha quindi dato modo di studiare il lavoro svolto “dietro le quinte” da molti allenatori. Prescindendo dal loro livello di capacità, preparazione e soprattutto impiego, esiste sempre un fil rouge che unisce il lavoro del mister più esperto e quotato a quello del giovane debuttante rampante: la ricerca dell’ottimizzazione. Cosa significa ottimizzare, in campo calcistico? Significa cercare di costruire un sistema che sia capace di esaltare i mezzi a propria disposizione, massimizzando quindi – si torna sempre lì! – le possibilità di vittoria della propria squadra.
Ecco perché non esiste – o non dovrebbe esistere – un dibattito tra “bel gioco” e “giocare bene”: l’estetica fine a se stessa non aumenta le possibilità di vittoria di un club. Anzi, semmai le riduce. Il paradigma è quindi inverso rispetto a quello che viene spesso additato ai presunti “belgiochisti”: quel gioco che per molti risulta esteticamente gradevole non è il fine ultimo del lavoro che viene svolto in settimana da allenatore e staff. È semmai il mezzo che il mister decide di sfruttare: non tanto per generare emozione in chi guarda, quanto per creare un contesto tecnico-tattico capace di elevare il rendimento dei singoli all’interno di un collettivo funzionante e funzionale, così da aumentare al massimo le proprie possibilità di sopraffare l’avversario.
Contenuto e non forma, dicevo. Perché i vari modi in cui un allenatore può decidere di organizzare la costruzione dal basso, i movimenti offensivi, il pressing, la marcatura, i piazzati, ecc. non sono una questione di mera estetica, appunto, quanto pienamente di contenuto tattico. Nella storia del calcio, dal kick&rush in poi, sono state diverse le strategie che i vari allenatori hanno messo a punto per arrivare ad ottenere il risultato migliore possibile. In tutti questi sistemi – dalla Máquina alla Route One, passando per il Tiki-Taka e il Catenaccio – il fulcro del lavoro è sempre stato imperniato sulla valorizzazione dei giocatori, la creazione di un collettivo funzionante e, da qui, l’ottenimento del risultato.
Pensate alla squadra che ha sposato meglio il vostro ideale di “bel gioco”. Ecco. Anche gli allenamenti di quel team non erano volti a creare uno spettacolo effimero che potesse unicamente appagare i vostri occhi ma, semmai, alla costruzione del miglior contesto possibile che sapesse esaltare le qualità a disposizione per andare a cercare la vittoria!