Lo avrete letto su tutti i giornali, specie quelli diretti da chi non sperava altro che un titolone del genere, facile facile, senza neanche dover stare lì a spiegare, giustificare o rischiare querele: “Le Mafie sono arrivate alla Juventus”.
Boom.
Si tratta di un virgolettato pronunciato dalla presidente Rosy Bindi durante l’audizione/bis del procuratore sportivo Pecoraro presso la Commissione antimafia del 5 aprile scorso. Tale affermazione, ovvio, ha fatto scattare subito delle inevitabili domande:
“Ma cosa vuol dire ? Che la Juventus sia controllata dalla Mafia?” No.
“Che faccia affari con la Mafia?” Ovviamente no.
“Che Agnelli sia mafioso o abbia incontrato boss mafiosi per trattare chissà cosa con loro?” Ancora no.
La frase della Bindi è in realtà comprensibile, oltre che verosimile. Comprensibile perché la Commissione antimafia non avrebbe convocato due volte il procuratore sportivo e due l’avvocato difensore della Juventus se non fosse convinta di un’infiltrazione mafiosa nel calcio. Si occupa di quello. E non avrebbe convocato nemmeno Napoli e Roma, e altri club, se non fosse convinta che il fenomeno sia “italiano”, e non “torinese”. Poi, certo, non è un tribunale (anche se teoricamente ne ha gli stessi poteri e limitazioni) e soprattutto non è lì per fare un processo, essendocene già due (uno penale, in corso, e uno sportivo, che inizierà a fine maggio). Verosimile perché si evince dall’indagine della Procura di Torino, per la quale è ritenuto un fatto certo. C’è ovviamente un processo in corso, e va ricordata anche la posizione dei legali dei Dominello che escludono qualsiasi possibile nesso tra il bagarinaggio e la ndrangheta, ma è un aspetto, questo, che pur interessando la Commissione antimafia e interessando la Procura di Torino, a noi “sportivi” non dovrebbe sfiorare.
Perché? Perché è altrettanto certificato, proprio dalla Procura di Torino, che la Juventus non ne fosse consapevole, e soprattutto che non fosse consapevole del fatto che tramite bagarinaggio indiretto si alimentasse un giro d’affari per finanziare attività illecite (fatto sempre da accertare in un processo, come dicevamo).
A dirlo è la stessa Procura di Torino, che ha prima messo sotto torchio i dirigenti bianconeri, li ha intercettati, ha preteso risposte anche in maniera dura (D’Angelo racconta sconvolto del suo interrogatorio e trema perché – così gli aveva riferito il PM – se non fosse stato in grado di ricostruire bene la vicenda, sarebbe stato “fottuto”). E non ha trovato nulla di concreto sul quale continuare a indagare o per il quale chiedere un rinvio a giudizio, o anche solo per far cambiare lo status dei dirigenti bianconeri da “testimoni” a “indagati”. Mai.
La Juventus e Andrea Agnelli non hanno nulla a che fare con la ndrangheta, altrimenti il presidente bianconero si sarebbe beccato un concorso esterno da una procura che, mettiamola così, negli anni non si è certo dimostrata tenera. Questo andrebbe sottolineato e ripetuto come un mantra, perché tutto quello che di contrario viene sostenuto è fango gratuito, o diffamazione. Su questo argomento è stato chiaro persino Pecoraro, nell’ultima audizione, quando ha ribadito ad un membro della Commissione che interloquiva con lui “Lei non si deve permettere di dire che io ho accostato Agnelli alla ndrangheta”. E anche questa frase andrebbe scolpita sui muri, perché se non si parte da lì si torna al fango e alla diffamazione.
La Juventus ha invece innegabilmente violato una norma specifica del codice di giustizia sportiva, l’art. 12, che fa divieto di vendere più di 4 biglietti per persona. I “pacchetti” preparati dalla Juventus e destinati ai vari gruppi, perciò, a prescindere da quali fossero le intenzioni della Società, erano e sono vietati (in ogni stadio). Questo fatto è stato ammesso dalla Juventus, è pacifico, la Juve ovviamente dice che è stato commesso un errore in buona fede, che facendo pagare ogni biglietto (a differenza del passato) credeva di essersi messa al riparo da bagarinaggi (e invece), ma ad ogni modo ha ammesso un errore ed è pronta ad assumersene le responsabilità (il pagamento di una forte multa).
La Juventus, di cosa ci fosse dietro una volta venduti i biglietti, non ne era a conoscenza e non le interessava, esattamente come non interessava la DIGOS di Torino. Che sapeva i capi ultras non fossero dei santi, che immaginava ci potesse essere un business illecito nelle Curve (merchandising, biglietti, trasferte), che seguiva passo passo tutta la vicenda assieme alla Juve, ma che anche lei era interessata più alla pace nella Sud che al “come”. Perché c’è voluta una denuncia di un tifoso svizzero (che pagò un biglietto 200 € più del costo normale da un bagarino) per far muovere verso quella direzione la Procura di Torino.
La Juventus lo faceva perché “questa è gente che ha ucciso” (cit.), perché Conte vuole la bolgia, perché la responsabilità oggettiva tiene i club sotto ricatto e ti costringe a mediare, perché era più comodo così, per i motivi che volete voi. E non è stata ritenuta dalla Procura parte lesa, proprio perché non glien’è mai importato nulla del bagarinaggio e di altre cose simili: la Juve i biglietti li vendeva, a prezzo pieno. Quindi non aveva nessun danno economico (nessuna “lesione”, necessaria per parlare di parte lesa). Per farli stare buoni c’era da dare tot biglietti a questi e tot a questi altri? Ok. Pagateli e ve li riserviamo. Errore, come detto. Art. 12, come detto. Ma questo è, punto.
Perché allora si continua a vivisezionare intercettazioni e a parlare di possibili incontri manco fossimo su Novella 2000? Perchè Pecoraro, l’ha detto nell’ultima audizione, ha “il sospetto” che Agnelli sapesse. Pecoraro, che non ha condotto le indagini dure di cui sopra e che non ne avrebbe neanche la facoltà, non avendo un GUP da convincere (a differenza della Procura di Torino: ah, sti giudici…….!), si fa bastare i suoi “non poteva non sapere” e con questo chiede ad Agnelli che paghi non solo per non aver impedito il bagarinaggio, ma anche per essere stato soggetto attivo delle “trattative” con gli ultras, anzi con i delinquenti a capo degli ultras. Uno dei quali, Rocco Dominello, sarebbe esponente di una famiglia della Ndrangheta (secondo l’accusa: c’è un processo in corso).
Il suo è un tentativo, vedremo se reggerà i vari gradi del processo sportivo, di legare Andrea Agnelli a Dominello bypassando la certezza della Procura di Torino che il presidente bianconero non conoscesse né lo status criminale, né il fatto che facesse bagarinaggio per finanziare la ndrangheta (fatto processualmente ancora da accertare: scusate le parentesi, ma sono d’obbligo). E’ un tentativo, letterale, perchè – e anche questo è bene ribadirlo – non esiste alcuna intercettazione che provi in maniera certa che Andrea Agnelli sapesse. Ce n’era una, secondo Pecoraro. Ma abbiamo appreso che “ci eravamo sbagliati, non esiste”. Quindi, tolta quella, non ce ne sono. Nessuna. Non c’è alcuna prova certa. Ci sono le teorie di Pecoraro, che dovranno essere giustamente provate a processo.
“La responsabilità dei bagarinaggi è del Presidente”, sostiene Pecoraro. E’ discutibile, ma ci può stare come concetto. “Agnelli sapeva che i biglietti finivano a famiglie della malavita organizzata per finanziare attività illecite” invece no, va oltre, ed è qualcosa che senza prova non si può dire. Perché la Procura addetta ad indagare su quell’eventualità e cercare quelle prove, l’ha fatto, a lungo, e non le ha trovate.
“Le Mafie sono arrivate alla Juventus”, dice la Bindi (e la Procura di Torino). Sintetizzando con una battuta, potremmo aggiungere “Ma non hanno avvisato”.