Pare essere passato un secolo, ma fino a poco tempo fa il tema principale delle discussioni calcistiche legate alla Champions League era quello della mancanza di equilibrio competitivo tra le partecipanti. Un tema che Čeferin per primo aveva affrontato in diverse interviste e che aveva messo al centro del suo programma politico già dal 2018.
L’attuale formato della Champions, che da ieri improvvisamente si difende a spada tratta sui giornali decantandone la meritocrazia, era visto come troppo limitante per alcune piazze e al contrario troppo vantaggioso per le solite società. Questo perché all’UEFA si rimproverava di aver creato, tramite il FFP, un sistema sì con i conti più in ordine, ma i cui ricavi da partecipazione fungevano da spartiacque creando un gap economico incolmabile tra chi vi prendeva parte regolarmente (di solito, appunto, le big) e quei club che, per fatturato, interesse limitato (es. i club facenti parte di campionati “meno attraenti”) o per congiunture varie, rimanevano alla porta.
Questa situazione ha creato due problemi. Il primo, è l’impossibilità di poter immettere capitale tramite finanziamento soci per colmare il divario tecnico creatosi fra partecipanti e non. Mentre ad esempio l’Inter era costretta a mettere a posto i conti, era limitata contemporaneamente nella possibilità di investire per ritornare competitiva e poter accedere alla Champions e ai suoi ricavi, sia diretti sia indiretti. Il secondo problema, invece, riguardava quei club che, esempio la Roma, non riuscivano ad entrare tra le qualificate al torneo – nonostante grandi spese – per una o due edizioni consecutive e si ritrovavano con una rosa il cui costo era tarato per la Champions, senza avere però i ricavi della Champions.
Nonostante le promesse, si è fatto poco o niente per rendere il prodotto Champions, già poco apprezzato a livello di sponsor, più attraente per i ragazzini, più equilibrato nei risultati e meno rischioso per gli investitori. Non lo si è fatto perché, mentre da un lato l’UEFA si è preoccupata esclusivamente di limitare le spese dei vari club, dall’altra ne ha limitato anche la capacità di produrre fatturato gestendo tutto centralmente (Florentino Pérez al Chiringuito ha parlato più volte di “monopolio”), con risultati imbarazzanti se paragonati a quelli delle Leghe americane. La necessità di una Superlega affonda le sue radici proprio nella convinzione, da parte dei top club europei, di “valere” di più di quanto raccolto finora.
In questo scenario, si è inserita l’emergenza Covid e il modello attuale dell’UEFA ha mostrato tutti i suoi limiti. Alla perdita di fatturato da parte delle principali squadre (più sono alte le tue spese, più è alta la tua perdita) e alla richiesta dei presidenti delle “12” di porvi un rimedio, Čeferin non ha saputo dare risposte. Non ha aumentato i ricavi (che ha mantenuto centralizzati), ma non ha neanche accettato la richiesta di abbattere le spese concordando (o imponendo) ai calciatori un decurtamento del 30% dei guadagni per fronteggiare l’emergenza.
Ciò ha mandato a gambe all’aria i principali investitori del calcio europeo e ha spinto i fondatori ad accelerare i tempi per creare un contro-sistema che potesse dare risposte più soddisfacenti e immediate alle loro necessità.
Veniamo quindi alla Super League. Personalmente, ho rispetto per chiunque attribuisca una funzione “sociale” al calcio. Io la penso diversamente: per me, è business. Essendo business, dovrebbe sottostare alle regole del mercato. E allora, in un sistema aperto, non può che essere la capacità di spesa e/o di produrre fatturato dei singoli imprenditori (attenzione: dei singoli, non della Lega), oltre alla palla che rotola, a determinare i successi o meno, sicuramente economici, ma quasi sempre anche sportivi. Per quanto possano esistere esempi virtuosi e Cenerentole che ci fanno sognare, nel lungo periodo un imprenditore con potere di spesa 100 prevarrà quasi sempre su quello con potere di spesa 1.
Basta sfogliare gli albi d’oro dei tornei nazionali. In Olanda, negli ultimi 30 anni, per 25 volte hanno vinto i club con più soldi, ovvero Ajax e PSV. In Francia, il PSG ha vinto 7 degli ultimi 8 campionati e il Lione, poco prima, ne aveva vinti 7 consecutivi. In Germania, il Bayern Monaco è a 8 campionati vinti di fila (e si avvia al nono). In Italia, la Juve si è fermata a 9 (e il 10° lo vincerà l’Inter che l’estate scorsa fu una delle società che spese di più in Europa). In Spagna negli ultimi 37 campionati hanno vinto per 31 volte Barca o Real. E così ovunque.
Chi investe 100, però, oltre ad avere più possibilità di vincere rispetto a chi investe 1, avrà un rischio d’impresa 100 volte superiore se le sue entrate dipenderanno in gran parte da un risultato sportivo da conseguire e non solo dalla capacità di “fatturare”. Ed è qui, per tornare al discorso di prima, che si crea il cortocircuito Champions. Club che investono 100 possono rischiare un collasso economico per un’annata sfortunata? Voi mi direte: certo, è il bello dello sport, è ciò che lo rende appassionante!
Per me, che considero il calcio un business, è “bad business”. Ci sta quindi che anche gli imprenditori che portano avanti questo giocattolo abbiano voluto lavorare per limitare o addirittura eliminare questi rischi.
Come lo si può fare, cercando magari al tempo stesso di creare un torneo più avvincente e con maggiore equilibrio competitivo? Per me la risposta è proprio nel tanto odiato sistema chiuso (o parzialmente chiuso), del quale sono un sostenitore.
È un sistema che ti permette infatti di centralizzare davvero le entrate, distribuendole in maniera paritaria tra le concorrenti, per poi lasciare – limitando le spese con un salary cap legato ai soldi distribuiti – che sia la bravura dei dirigenti a determinare le sorti sportive. Tutti i club avrebbero uguali opportunità partendo tutte insieme dal via. Solo così si potrebbe lavorare tutti insieme per aumentare i fatturati, senza che aumenti il gap economico tra le partecipanti. Solo così si potrebbe programmare a medio termine e tenere i conti in ordine, poichè non costretti a inseguire affannosamente la competitività immediata per pura logica di sopravvivenza economica. Solo così, il rischio sarebbe limitato e il successo economico e la sostenibilità dei tuoi conti non dipenderebbero da eventi “casuali” o da stagioni particolari.
Piace? Non piace? È soggettivo, ognuno avrà la sua opinione. A me, piace. Non solo: tutti i discorsi sulla iniquità di un sistema chiuso o ad inviti non mi scaldano per niente, soprattutto perché nulla vieterebbe all’UEFA di organizzare comunque il suo bel torneo aperto parallelo come già succede nel basket.
Detto questo, e veniamo alle note dolenti, la Super League ci è stata “venduta” malissimo. Invece di vendere un “sogno” ai tifosi, invece di presentare una nuova Coppa da ammirare e desiderare, invece di spiegare i punti di forza di questo sistema, invece di approfondire il discorso sul salary cap, sulla competitività, sulla meraviglia di un potenziale spettacolo generato da club in salute economicamente e con la capacità di acquistare i migliori calciatori del mondo per creare il miglior torneo del mondo… invece di mettere i campioni al centro (magari creando un All-Star game, un premio MVP, riconoscimenti personali oltre che di squadra)… invece di tutto questo, è stata comunicata solamente la necessità impellente di salvarsi il culo.
Invece di un qualcosa diverso, ben pensato, ben strutturato e ben argomentato, l’impressione è stata quella di un cheat. Di un trucchetto, di una scorciatoia, addirittura di una “infamata” per beccarsi tutti i soldi di una nuova torta e salvare se stessi a discapito delle altre. Anche la presentazione in nottata, ognuno per fatti suoi, senza un evento comune, senza un segno anche fisico di vicinanza e compattezza dei club, ha contribuito a dare l’impressione di una cosa quasi improvvisata, quasi clandestina.
Tutto ciò, unito al fatto di aver presentato 12 squadre di 20, ha fatto pensare non ci fosse poi molto di pronto, se non qualche accordo di massima con grandi investitori. Sarebbe probabilmente stato utile trovare prima i 20 partecipanti e poi annunciare il progetto. Per vincere gli scettici del sistema chiuso, poi, si sarebbe potuto pensare come alternativa ad una formula che, più che premiare “a vita” 12 club privilegiati, prevedesse per loro un piano quinquennale che permettesse ai club di programmare e agli sponsor di avere delle certezze. Si sarebbe inoltre potuto lasciare la possibilità ad altri 8-12 club di partecipare secondo criteri meritocratici (palmares, piazzamenti, investimenti strutturali, giovani), magari su base biennale.
Sono solo delle idee per dire che si sarebbe comunque potuto rimodellare l’attuale sistema in uno diverso, migliore e, su quella base, eventualmente, trattare con l’UEFA (che ha proposto una porcheria di formula, dal 2024) e la FIFA.
Peccato invece sia andata come è andata, perdendo una buona possibilità di creare un prodotto più avvincente e funzionante rispetto a quello attuale. Ma dagli errori si impara e non è detto che questa sia la parola fine su un’idea comunque promettente che spero non venga del tutto abbandonata.