La gestione del carico di un calciatore – L’importanza del recupero

L’evoluzione tattica e tecnica del calcio moderno degli ultimi anni è sotto gli occhi di qualsiasi buon appassionato. Il calendario sempre più denso di gare (nazionali ed internazionali), le trasferte e gli orari imposti dai diritti tv, obbligano il calciatore a sottostare ad impegni psicofisici logoranti, dovendo garantire, per ognuno di questi, prestazioni al massimo delle proprie qualità.

Tale situazione obbliga il giocatore ad essere sempre più minuzioso nella cura del proprio corpo e della sua forma psicofisica, così da poter essere performante in ogni situazione. Per mantenere questo livello è necessario svolgere un ottimo lavoro sul campo, attraverso il sudore e la fatica. Ma questo da solo non basta.

Nel mondo della preparazione atletica e della performance il protagonista è l’allenamento, proposto in tutte le sue forme più varie e secondo le più diverse metodologie. L’obiettivo è quello di migliorare la performance dell’atleta.

Però, bisogna sempre ricordare che l’allenamento è un processo che sottopone il nostro organismo ad una fonte di stress, metabolico, meccanico e neurogeno. Ottenere, quindi, un miglioramento atletico è un processo lungo e complicato, che necessita di tempi ideali di recupero da questi stimoli e di tempi che permettano di creare tutti quegli adattamenti attraverso i quali il nostro corpo è in grado di apportare un miglioramento rispetto alla situazione precedente, ottenendo la cosiddetta compensazione. Va da sé, dunque, che recuperare dallo sforzo fisico, di qualunque tipo esso sia, è tanto importante quanto l’allenamento stesso.

La gestione del carico a cui viene sottoposto il calciatore, e la gestione del calciatore stesso in relazione alla fatica che accumula, è il modo più efficace, se non l’unico, per garantire un livello di performance costante e non condurre l’atleta ad infortuni.

Capire come, quando e quanto recuperare è la parte più complicata del lavoro del preparatore atletico. L’allenamento, abbiamo detto, ha come fine quello di provocare degli stress che si tramuteranno in miglioramenti attraverso il recupero e la rigenerazione. Ma a seconda della tipologia di lavoro fisico che si andrà a proporre si ha l’opportunità di focalizzare la potenziale e futura crescita prestativa su un aspetto in misura maggiore piuttosto che su un altro.

Prima di procedere bisogna tenere a mente, però, un concetto decisamente importante che è quello dell’eterocronia, ovvero la caratteristica del nostro organismo secondo la quale gli adattamenti divengono manifesti in strutture diverse secondo tempi differenti. Ciò significa, ad esempio, che gli adattamenti neuromuscolari saranno quelli a manifestazione più rapida; quelli tendinei, invece, i più lenti, mentre quelli muscolari si manifesteranno nel medio periodo.  Sulla base di questa considerazione, è consequenziale immaginare che una proposta di allenamento di tipo X ha bisogno di tempi di recupero specifici, i quali sono diversi da quelli pensati e proposti per un allenamento di tipo Y.

Come e quanto recuperare?

Non esiste una formula precisa sulle modalità di recupero. La ricerca e la letteratura scientifica ci forniscono, però, dati oggettivi e mezzi sui quali basarci per identificare la strategia di recupero più adatta ad una data situazione.

Gli strumenti nelle mani del preparatore atletico oggi sono diversi e solo attraverso un utilizzo combinato di questi è possibile ottenere una valutazione oggettiva sullo stress psicofisico al quale il calciatore è posto in un determinato periodo della stagione.

Il carico è suddivisibile in carico esterno e carico interno. Il primo è l’insieme di tutte quelle specifiche che sono misurabili attraverso le variabili dell’allenamento: intensità, durata, densità, frequenza e volume complessivo. Il secondo include tutte le rilevazioni strumentali, ma anche le sensazioni e percezioni dell’atleta, che sono rintracciate nel giocatore in seguito all’allenamento ed hanno a che fare con la frequenza cardiaca, la percezione dello sforzo, diversi picchi ormonali.

Tenere traccia del carico è il lavoro cardine della preparazione atletica. Il professionista delle scienze motorie che si occupa di questo può farlo mantenendo aggiornato il suo diario di allenamento, in cui inserisce precisamente, ad esempio, il chilometraggio totale, il tonnellaggio complessivo di pesi sollevati (se e quando utilizzati), la durata di ogni esercitazione proposta e il rapporto di questa con il recupero lasciato alla squadra, numero di serie e ripetizioni. Ma anche i risultati atipici o degni di appunto (positivi o negativi) che l’atleta raggiunge durante la seduta.

Questi dati vanno intrecciati con le rilevazioni del carico interno che vengono individuate. La più semplice misurazione della frequenza cardiaca (FC) a riposo ci dona un valore predittivo della fatica che è stata accumulato dal giocatore in corso di valutazione, oltre che del suo stato di fitness cardiovascolare. Tenere traccia della FC durante l’allenamento, invece, aiuta il preparatore a tarare e adattare in corsa il lavoro che è stato pensato per quella seduta, ad individuare la zona di intensità di allenamento più utile per l’obiettivo preposto, a sottoporre e suddividere gli atleti a differenti intensità a seconda della loro forma fisica. Quando questo non è possibile, è utile definire come l’atleta ha metabolizzato l’allenamento utilizzando strumenti semplici come la Scala RPE o Scala di percezione dello sforzo, in cui il calciatore associa semplicemente un numero alla seduta svolta, tanto più grande quanto più è maggiore lo sforzo fisico che gli è stato richiesto in allenamento o in gara.

Nel caso si disponesse di risorse più complesse, un’analisi ormonale del cortisolo ottenuta attraverso un campione salivare, è un dato utile da associare alle altre variabili interne per individuare stati di eccessivo carico psicofisico. Il cortisolo è considerato l’ormone dello stress e una sua alta concentrazione è collegata ad uno stato di forma non ottimale e nei casi più gravi alla sindrome da overtraining.

A questi semplici e ben conosciuti test, vanno poi aggiunte tutte le valutazioni dei professionisti che compongono lo staff e che identificano, attraverso controlli periodici e costanti, eventuali stati di sovraccarico muscolo-tendineo tramite l’ispezione muscolare manuale, individuazione di guadagno o perdita di mobilità articolare, aumento o diminuzione del tono muscolare, tutte situazioni che rendono necessarie terapie, trattamenti e sedute puntuali anche durante momenti della stagione ricchi di impegni.

L’incrocio dei dati a disposizione, si è detto, rende possibile inquadrare lo stato di forma dell’atleta e la sua risposta all’allenamento. Utilizzando i semplici esempi citati in precedenza, possiamo ipotizzare di valutare un calciatore dopo un periodo in cui ha giocato 5 gare in 13 giorni. Durante l’allenamento che segue il quinto incontro, ad esempio, ci si accorge che, pur trattandosi di una proposta a basso impegno cardiovascolare, il suo tracciato cardiaco risulta più alto nell’esercitazione tecnico-tattica rispetto alla media dei compagni di squadra. Si verifica la scala di valutazione dello sforzo degli ultimi 5 allenamenti e si nota che ha votato le sedute con dei valori più alti di quanto attesi. Si valutano poi i chilometri percorsi dal giocatore specificamente in gara e in allenamento, confrontando analiticamente queste distanze con le ultime medie registrate. Si parla con il giocatore per identificare un effettivo stato di stanchezza e si decide di prelevare un campione salivare per l’analisi del cortisolo. Se l’ipotesi viene confermata anche dall’ormone, ecco che per il giocatore seguiranno sedute differenziate di recupero, lavori di gruppo ad intensità diversa, o più banalmente, un giorno libero da passare in famiglia.

I test di campo che vengono utilizzati per la valutazione dello stato di forma in relazione ad una capacità condizionale dell’atleta non possono essere usati per rintracciare direttamente uno stato di sovraccarico, in quanto sono stati pensati per valutare il raggiungimento o non raggiungimento di un livello di condizionamento ideale. Banalizzando, non possiamo valutare quanta fatica è stata cumulata precedentemente attraverso un test di Cooper, un test di forza massimale o un test di sprint sui 30 metri. Si tratta di un processo indiretto, in cui possiamo ottenere un’indicazione sul momento di forma attraversato dall’atleta, ma solamente integrando il dato specifico con le informazioni che derivano da altri esami specifici potremo avere un quadro più nitido.

Inoltre, i test vanno temporizzati ed effettuati con criterio perché, per esempio, fare dei test di forza massimale a inizio preparazione, non associati a un incrocio di dati (la cui raccolta richiederebbe tempi molto lunghi) non serve a niente. Anzi rappresentano un rischio inutile. Negli anni ‘90 era uso comune farne 2-3 poco prima di iniziare i carichi di preparazione pensando che potessero indicare uno stato di forma di partenza.

È bene sottolineare come nei periodi di grande competizione non si ha tempo materiale per test di questo tipo ed eseguirli corrisponderebbe a sottrarre tempo utile all’allenamento e al recupero.

Come recuperare al meglio?

Esistono tempi di recupero diversi a seconda del tipo di attività che si è svolta e a seconda dell’intensità che è stata utilizzata. Il tempo è anche la variabile che viene utilizzata per “prescrivere” la quantità di recupero che serve alle diverse componenti del nostro sistema per rigenerarsi.

L’acido lattico prodotto durante lo sforzo fisico protratto nel tempo ad alta intensità, ad esempio, ha un tempo di emivita di circa 30’, per cui la sua concentrazione si dimezza ogni mezz’ora e il suo smaltimento avviene nel giro di qualche ora.
Le scorte di glicogeno necessitano di tempi molto più lunghi, circa 48h o più.
A livello cellulare, invece, il riequilibrio bisogna di tempi molto più dilatati anche superiori alla settimana, come nel caso dell’eliminazione e della rigenerazione mitocondriale.

È chiaro, quindi, che in un calendario ricco di impegni il recupero inizia nel momento in cui l’arbitro sancisce la fine del match con il triplice fischio.
Una partita di calcio comporta un notevole dispendio di energie e una cospicua produzione ed accumulo di acido lattico che si attesta tra le 4-6 mMol nei minuti successivi alla gara.

Risulta fondamentale favorire lo smaltimento dei metaboliti prodotti in partita e, secondo quanto indicato in letteratura scientifica, questo è possibile svolgendo un lavoro aerobico di intensità inferiore al 50% della propria FCMAX per un periodo di 20’.

Non sempre è possibile che questo venga messo in atto, specialmente dopo gli impegni serali in cui le attenzioni devono essere rivolte principalmente al reintegro di liquidi, al consumo di un pasto utile al reintegro dei substrati energetici dai quali attingere energie, ma soprattutto, in vista di impegni ravvicinati, guadagnare tempo prezioso da dedicare al sonno.

La sempre più rinomata crioterapia è un altro metodo che può essere utile nello smaltimento delle scorie prodotte durante l’attività fisica e accumulatesi nell’organismo, ma anche un buon aiuto per eliminare l’infiammazione. La vasocostrizione legata all’esposizione a basse temperature favorisce il ritorno venoso a livello centrale, con un accorciamento dei tempi necessari al trasporto e all’eliminazione delle sostanze di rifiuto.

In conclusione, recuperare è importante ma recuperare bene è ancor più fondamentale. Questo vale in modo particolare per i top player delle squadre di vertice che oltre ad avere un elevato numero di impegni da competizioni per club devono rispondere con orgoglio alle chiamate della squadra nazionale.

Oggi ci si focalizza eccessivamente sul fare, sul fare tanto e fare sempre, pensando che sia sempre tutto un guadagno in previsione futura. Basta pensare all’idea comune del “mettere fieno in cascina per l’inverno che verrà”. Questo atteggiamento nel calcio non vale, anzi risulta essere controproducente nel lungo periodo. È necessario rispettare i tempi biologici di adattamento e di recupero del nostro corpo, rallentando e, se necessario, prendendosi una pausa.

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