Tributo al capitano e bandiera della Juventus, originariamente pubblicato il 10 maggio 2016 su Juventibus. I primi passi da centrocampista fino a diventare uno dei migliori portieri nella storia del calcio.
Il pallone di plastica disegnava traiettorie imprevedibili. No, non era come il pallone che si vedeva in Holly e Benji, nemmeno il campo aveva le stesse dimensioni. Il divertimento però non mancava a Pertegada, un paesino in Friuli, dove si poteva vedere un bambino forestiero, mandato lì dai genitori a trascorrere la quasi totalità dell’anno. L’estate, invece, è la stagione in cui si ritorna a casa, al mare: quel bimbo lo potevate trovare ai Bagni Unione 1920, in spiaggia tutto il giorno, assieme a sorelle, cugini, e vi sareste accorti di tutti gli scherzi di cui era vittima. Una vita cadenzata dal passare del tempo, segnata dall’affetto della famiglia e degli zii: lui il più piccolo, lui l’unico maschio, coccolato e amato. Poi arrivò il primo giorno di scuola e il bambino dovette salutare Pertegada, il rigore del gelo invernale, il tepore della stufa, il negozio delle sorelle del papà. Inizia un altro capitolo della vita. Una vita da numero uno. Una vita di Gianluigi Buffon. E questa è la sua storia.
“Per che squadra tieni?”. È la domanda che si usa fare per conoscersi a scuola. La risposta è legata ai cicli della squadra: i bambini fanno il tifo per la squadra del papà o per quella che sta vincendo. Gigi, invece, è del Genoa e simpatizza per il Pescara di Galeone. La passione per il Grifone è legata agli zii materni: lo stemma sull’auto, i colori sociali, il calore del pubblico. Come nella quasi totalità della vita dei giovani italiani ci sono i libri e il pallone. C’è la squadra del cuore e la squadra per cui si gioca. La borsa, la tuta, i calzettoni, le scarpe avvicinavano il mondo dei piccoli a quelli dei grandi: papà Lorenzo, che come mamma Maria Stella era un atleta, allenava una squadra, il Canaletto, una formazione di La Spezia, dove Gigi inizia la sua carriera da calciatore. Tre anni da centrocampista. Tranne un’esperienza tra i pali: mancava il portiere della formazione e Buffon lo sostituì facendosi decisamente apprezzare. Una partita e poi il ritorno nel suo ruolo: in mezzo al campo, Gigi brilla, tanto che inizia a giocare con i ragazzi più grandi di un anno. La terza e ultima stagione, arrivati alla fase finale provinciale, venne chiamato da quelli del 1976 per parteciparvi come portiere: quarti, semifinale, finale con vittoria del titolo. Un’esperienza, un’avventura prima di ritornare a centrocampo cambiando squadra: Buffon è un Tardelli, un Berti, una mezzala in grado di segnare parecchi gol. Gigi passa alla Perticata, società gemellata con l’Inter, e si fa una certa nomea come uno dei ragazzini più interessanti della zona. Sicuramente uno dei migliori di Massa Carrara. Nel marzo del 1989 viene chiamato a indossare la maglia della selezione della sua città per una amichevole a San Siro prima di una partita dell’Inter; solo la traversa, ora alleata ma allora nemica, gli nega la gioia del gol su punizione.
Gigi Buffon in versione alunno.
La passione per il calcio è totalizzante. Ci sono gli amici, quelli che lo accompagnano scandendo le giornate, ci sono le prime ragazzine, ma c’è soprattutto il pallone: Gigi lo guarda alla tv, raccoglie le figurine dell’album Panini, prova a vincere alla schedina. Ai Mondiali del 1990 scopre il Camerun, ma la passione per quello che sarebbe poi diventato l’idolo, Thomas N’Kono, nasce guardando tre anni prima la vittoria dell’Espanyol ai danni del Milan di Sacchi. Buffon diventa un tifoso della nazionale africana perché sull’album della Panini si trovavano in due sulla stessa figurina, come i giocatori della B. E poi le tute di spugna sotto quel sole. Ed è proprio nel 1990 che arriva il cambio di ruolo: un passo indietro, tra i pali. Il consiglio è del papà: “Perché non ti metti a fare il portiere per un anno?”. La Perticata lo vuole solo come centrocampista e arriva allora un altro trasferimento: si passa al Bonascola. A fine stagione, sempre con la squadra più grande, partecipa al Torneo Maestrelli: la sua squadra vinse 1 a 0, lui fece una partitona. Era già finito sul taccuino di molti osservatori: lo chiamano Bologna, Milan e Parma. Era la tarda primavera del 1991 e Gigi era diventato un portiere. Il consiglio arriva dai genitori: “Parma è una città più a misura d’uomo”. Si va in Emilia, si va a tredici anni a vivere lontano da casa, in un collegio.
« Cerca di cambiare, altrimenti torni a casa ». Fabrizio Larini, responsabile del settore giovanile, avvisa Buffon. È il segnale: sei un ragazzo, non è più solo un gioco, in ballo c’è la tua vita professionale. Gigi, come migliaia di ragazzi, entra nel mondo del lavoro senza nemmeno accorgersene. Il carattere è forte, schietto, diretto, un po’ da spaccone: è quello di un ragazzino consapevole dei propri mezzi, abituato a gestirsi da solo. Al collegio puoi fare cattive esperienze ma soprattutto impari ad evitarle: l’educazione ricevuta è fondamentale, il salvagente per capire gli errori commessi e cercare di evitarli. La vita scorre velocemente: sveglia, colazione, scuola, alle 13 pranzo, pomeriggio allenamenti, sabato pomeriggio libero. Giornate da giovane atleta, apprezzatissimo, perché il valore di Buffon inizia ad emergere: nel maggio 1993 fa parte dell’Italia che si gioca in Turchia l’Europeo under 15. Le speranze, i sogni, le illusioni si devono tradurre in prestazioni: la Nazionale, di cui fa parte anche Francesco Totti, arriva in finale dove venne sconfitta dalla Polonia. L’Italia arriva fino in fondo grazie al contributo fondamentale di Buffon: nei quarti di finale, contro la Spagna, para due rigori e segna il suo; in semifinale ne respinge tre e sbaglia quello calciato. Sì, Gigi non aveva paura di tirare un calcio di rigore: da buon centrocampista si presentava dal dischetto. E a Lippi, a Manchester, disse che lui ci sarebbe stato per sfidare Dida. Quelle prestazioni valgono i primi titoli sui giornali, la fama e la notorietà possono concretizzare il pensiero di Warhol: quanti ragazzi erano sul punto d’esplodere, sono dei fenomeni e poi si perdono? Non è il destino di Buffon.
Estate 1994. Un adolescente di 16 anni viene aggregato al ritiro della prima squadra: Bucci era ai Mondiali, serve un altro portiere. E Gigi è un uragano, difficile, quasi impossibile da gestire: risponde, risponde sempre, fa il contrario di quello che l’allenatore dice, rischiando di far impazzire Nevio Scala. A Parma sono convinti di avere un potenziale fenomeno, quando possono chiudono un occhio, e hanno tanta pazienza per passare sopra certi errori ragionando assieme al ragazzo per aiutarlo a essere meno adolescente nel mondo dei grandi. A fine ritiro, Buffon gioca gli ultimi minuti di un’amichevole e fa una pessima figura. E chi avrebbe mai potuto immaginare che mesi dopo quel ragazzo irriverente sarebbe stato titolare in Serie A? Nessuno. A parte Gigi. Lui vive la sua età con il massimo dell’incoscienza. Dorme, dorme profondamente lungo il tragitto che porta allo stadio: deve giocare contro il Milan. I compagni sono preoccupati, impensieriti per il fatto che non avrebbe retto le pressioni e le emozioni, ma le qualità fisiche, tecniche e quel carattere duro, spaccone e incosciente, lo aiutano. 19 novembre 1995, la data dell’esordio: a 17 anni, Buffon si fa conoscere dal grande pubblico. Fece quattro, cinque interventi sensazionali: finì 0-0 e iniziò una nuova vita, quella del professionista.
« Sei tu il ragazzino che ha fatto cose discrete? » Papà Lorenzo accoglie così il figlio appena rientrato a Carrara. Gioca e impegnati. Lavoro, sacrificio. Questo il messaggio di una famiglia d’atleti. Gigi ritorna in Primavera, gioca al Viareggio, e s’appresta a vivere la stagione da 1995-1996 da giocatore di Serie A: lui è il vice Bucci. Una scelta che capisce ma che fatica a digerire: Buffon è sempre stato il titolare, anche se è un ragazzino perde stimoli non stando tra i pali. Chiede la cessione in prestito, vuole andare a giocare: si rivolge a Stefano Tanzi, vicino a lui come età, e ottiene il via libera. Però succede qualcosa. Martina, il suo agente/consigliere, e Pastorello, direttore sportivo, lo martellano: aspetta ancora qualche mese. Probabilmente sanno che Ancelotti, e il suo preparatore dei portieri, stanno meditando di cambiare: la squadra ha iniziato male, vogliono mandare un segnale di cambiamento a tutto il gruppo. Fuori Bucci, dentro Buffon. La scelta è definitiva e Gigi non perderà più la maglia da titolare.
L’esperienza a Pertegada ritorna alla mente. Nevica, si gela. A Mosca, a fine ottobre, è normale. L’Italia di Cesare Maldini si sta giocando l’andata degli spareggi per le qualificazioni ai Mondiali. Pagliuca è a terra, non si rialza. « Scaldati ». Lui non si muove. Cesarone, qualche minuto dopo, si gira e lo trova nuovamente seduto in panchina: « ma ti sei scaldato o no? ». « Mister, io sono pronto ». Ed entra in campo. 29 ottobre 1997, la data dell’esordio in Nazionale. Con autogol dell’amico Cannavaro, quello che quando va a sistemarsi tra i pali gelidi di Mosca gli dice « tranquillo Gigi ». Buffon va ai Mondiali francesi: non gioca, è lì per fare esperienza. E ovviamente non è abituato a stare in panchina. Durante un allenamento sono previsti dei tiri: lui non si muove, è immobile, non si tuffa. « Mister, non ne ho voglia ». « Allora vai a farti la doccia ». Maldini aveva capito che aveva di fronte un ragazzo che stava crescendo, uno che sbagliava, ci rifletteva su e poi ti chiedeva scusa. Quelli furono gli anni della totale spensieratezza, degli anni della gioventù vissuti anche follemente: usciva dai pali, usciva dagli schemi, mostrava al mondo quello che all’epoca era, un ragazzo spaccone, sicuro di sé, un po’ strano e un po’ folle. Sono gli anni delle grandi prestazioni, del Parma vincente e dei grandi errori: il “boia chi molla” e la maglia numero 88, diventati casi mediatici, sono figli dell’ignoranza e della superficialità, il diploma di maturità comprato è una cazzata che ha ferito la famiglia.
« Vorrei la maglia numero 77 ». « No, qui siamo alla Juve: stranezza nisba, giochi con la uno ». Primo dialogo tra Gigi Buffon e Luciano Moggi. Il trasferimento dell’estate 2001, il più costoso nella storia bianconera, segna l’inizio di un lungo matrimonio, una storia d’amore che ha vissuto di alti e di bassi. Il portiere dell’Italia è sul mercato: sembra fatta con la Roma ma Sensi preferisce spendere di meno; lo cerca il Barcellona, meta gradita, ma la trattativa non si concretizza; allora arriva la Juventus, non bada a spese, e lo porta a Torino, città che non è esattamente come Parma. Gigi ormai era di casa in Emilia: punti di ritrovo, posti frequentati, giro per le vie in vespa. E la Juve non è una società qualsiasi: con la maglia bianconera si deve vincere. Torna Lippi, la società effettua una campagna trasferimenti faraonica, ma l’inizio è dei peggiori. Gigi incontra difficoltà, la squadra non ingrana: non è ancora scattata la scintilla con la maglia bianconera, l’indossa da professionista. Sbagli con la Juve e il tuo errore è nazionale. Specialmente se sei costato una fortuna. La tua porta non è sotto assedio: arrivano pochi tiri, deve effettuare interventi limitati con i quali infondere e trasmettere sicurezza. La concentrazione è tutto. La pressione si sente: Buffon vuole essere la ciliegina della torta; come spesso succede, si sblocca grazie alla fiducia dell’ambiente, a una consapevolezza interiore e al lavoro in allenamento. Gigi diventa il portiere della Juventus nella sfida con la Lazio: esce come migliore in campo, gli errori sono alle spalle. È una stagione pazza, è l’anno del 5 maggio: il primo scudetto arriva inaspettato, l’unico a crederci davvero è Marcello Lippi. Poi ci sono i Mondiali del 2002, quelli della Corea, di Moreno e del tremendo golden gol.
Con una delle sue maglie preferite. Nel 2003.
« E quando cazzo mi ricapita un’occasione così? ». « Guarda che alla Juve capita spesso ». Manchester. Appoggiato a un muro dell’Old Trafford, Buffon fuma una sigaretta e osserva il tempo trascorrere: ha appena perso ai rigori la finale di Champions League. Lo sconforto si fa sentire. La domanda interiore, ma pronunciata ad alta voce, attira la riposta di Roberto Bettega: quella è la frase che identifica la Juventus. La stagione 2002-2003 è stata tra le migliori: campionato vinto facilmente, grande cavalcata in Champions, interventi fenomenali per tutto l’anno, miglior giocatore della competizione continentale. Anche a Manchester: su Inzaghi e ai rigori. Gigi si stacca da quel muro ma piano piano entrerà in un tunnel: quello della depressione. Le energie latitano, si ha solo voglia di restare a casa: la pesantezza dell’esistenza si sente dentro e tutta sulle spalle. Non si vede una via d’uscita. Passa il divertimento. Il futuro è un buco nero. Buffon vive in pieno la propria crisi esistenziale: vuole essere apprezzato, odiato, conosciuto per la sua persona, non per il personaggio pubblico. Non la tiene dentro di sé: ne parla con la famiglia, con il medico sociale. Si fa curare. E ancora una volta si sblocca in maniera imprevista: agli Europei, dei quali aveva una fottuta paura, durante la gara con la Danimarca qualcosa succede dentro Gigi. Si ha pareggiato? Fa niente. Buffon è guarito, la depressione è passata. E il sorriso torna nuovamente sul suo volto. Paura del futuro salutata. E arrivano altri successi con la Juventus di Capello, scudetti che sa di aver vinto sul campo: tutto quello che è stato conquistato sul campo è vero, frutto del lavoro, del sudore, del talento e della qualità. Buffon, uno che di errori ne ha commessi come tutti, ma è uno che non vuole commettere qualcosa che venga meno al rispetto del prossimo. Non truccare le partite, per esempio.
L’estate del 2006 racchiude in pochi mesi più anni. Gigi è sul punto di lasciare la Juventus. Qualcosa si è rotto con l’ambiente: vuole nuovi stimoli, deve sentirsi apprezzato e al centro dell’avventura. Poi arriva calciopoli. E lo scandalo personale che lo travolge: « Buffon e le scommesse, Buffon trucca le partite ». In quei giorni è un massacro. Lui ha da sempre avuto la passione del gioco: quando era in Friuli faceva la schedina con gli zii, da adulto scommetteva sugli altri sport per dimostrarsi un intenditore e giocava online. Nessuna scommessa clandestina sulle partite di calcio, nessuna gara manipolata per farci soldi: Buffon ha la passione, che è poi un vizio, del gioco. Con questo clima si va in Germania. Ancora una volta succede qualcosa d’insperato: l’Italia è una squadra, un gruppo di amici, unito, compatto, coeso. Lippi è il trascinatore. Lippi è quello che si butta vestito dentro un laghetto in mezzo alle papere. Buffon è quello che ha dato un calcio a una vetrata spaccandola rischiando di farsi male perché ha perso a ping-pong col suo amico Barone. Gattuso è quello che non dorme la notte prima della Finale, quello che prega Dio per farlo vincere. La felicità è fare felici gli altri: quel gruppo può regalare un’immensa gioia agli italiani. Lo faranno. E Buffon sarà di nuovo protagonista: la parata su Zidane è fantascientifica e tremendamente decisiva. Alza al cielo la Coppa e poi sviene: l’adrenalina è sparita. Ci potrebbe anche essere un Pallone, d’Oro, da alzare qualche mese più tardi, ma viene scelto il capitano, l’uomo che per primo ha sollevato quella coppa: Fabio Cannavaro, uno dei pochi amici che il calcio gli ha donato. Ed è lui, a novembre, a bussare alla porta della stanza d’hotel in cui si ritrova in ritiro l’Italia: « Gigi, l’hanno dato a me ». E c’è l’amarezza per un premio che sente di meritarsi, la delusione per un’occasione che difficilmente potrebbe riproporsi, ma dentro di lui si fa strada un’altra sensazione, il calore che arriva dalla consapevolezza che ha vinto un amico, uno col quale esiste un rapporto speciale.
L’estate non è ancora finita. La Juventus è in B. I giocatori la stanno lasciando. Una squadra è sfasciata. Che fare? Secco e Blanc lo pressano, lo fanno sentire protagonista, simbolo bianconero, ma la sua è una scelta di cuore; ora sente sua la maglia juventina, il professionista e l’uomo vivono le stesse emozioni. E Serie B sia. Gigi ora è accolto negli stadi italiani di provincia con il massimo degli onori: è campione del mondo, l’odio per la Juventus è sparito. Prima del 2006, Buffon era costretto a raccogliere tutto il materiale che gli veniva lanciato, prendersi insulti: il portiere è il giocatore più esposto. Perché, si chiede Gigi? Perché una signora gli augura un altro infortunio? Perché chi vince è antipatico e odiato in Italia. Ed è quello stesso odio che infesta il clima che Buffon respira ogni domenica, un’aria diventata irrespirabile, tanto che non prova più piacere a vincere.
A Rimini.
Quello è stato l’anno che avrebbe potuto cambiare la storia di Buffon. Sono arrivati gli anni tremendi del post Calciopoli, quelli dei tentativi bianconeri di rinascita: l’uomo abituato a vincere, a essere il migliore, vive stagioni grigie, anonime, da settimo posto. Poi arriva la nuova società, Conte, il punto di riferimento nei primi anni a Torino, è il nuovo allenatore: la Juventus torna a vincere, ridiventa una protagonista in Europa. Buffon sembra il papà del Buffon degli esordi: ora è un uomo, le esperienze passate lo hanno crescere. Quello che era il ragazzino che faceva innervosire compagni e allenatori, ora è il leader saggio del gruppo: è il monumento della Juventus e dell’Italia. È ritornato a giocarsi una finale di Champions League e ora ha la certezza che aveva Bettega a Manchester: alla Juve capita spesso. Passano le generazioni, cambiano i rivali, Buffon c’è. Sempre. E ora ha un record, quello dell’imbattibilità, che non poteva non essere del numero uno. E quel ragazzino che voleva giocare a calcio per le scarpe, la tuta, la borsa non dando importanza alla squadra, adesso è quell’uomo che ringrazia tutti i compagni e allenatore per aver scritto un nuovo record. Una vita da Buffon. Una vita vissuta: piena successi, errori, generosità, fallimenti, rinascite.