Per capire quello che sta succedendo alla Juventus, per una volta, non servono analisi tattiche. Certo, evidenzierebbero i tanti errori che si stanno commettendo sul campo (c’è materiale per scrivere un libro degli orrori), ma non il perché. Leggo spesso nei commenti in chat alcuni di voi che chiedono “Ma non faremmo meglio con questo modulo?”, “Ma perché non ha messo Tizio al posto di Caio?”. Personalmente, non credo sia questione di pedine o di dettagli. Quelli contano, ma vengono dopo. Sono la conseguenza di scelte da fare prima, a monte. Prima di tutto, di scelte che coinvolgono lo spogliatoio.
Innanzitutto, chiariamoci: cos’è uno “spogliatoio”? Non è molto diverso da qualsiasi altro gruppo di lavoro. È l’interazione e a volte la sovrapposizione di (e con) “gruppi” di persone: 1) i leader carismatici (un nome su tutti: Chiellini. Ha indubbiamente lui le chiavi della Continassa, la apre e chiude lui, gli altri lo seguono), 2) i leader tecnici (i giocatori più forti, quelli che ti fanno vincere le partite), 3) quelli che sticazzi, che pensano ad allenarsi e a giocare e basta (la maggioranza) e poi ci sono 4) i piantagrane, le famose “mele marce”.
A volte capita che i leader carismatici siano anche i leader tecnici della squadra (situazione ideale). Altre volte i leader tecnici sono “sticazzisti” (Zidane?) o possono addirittura essere dei piantagrane (Balotelli?), ed è un problema. A volte i leader carismatici diventano dei piantagrane, magari formando un clan “tossico” e inallenabile (l’Inter pre-Conte?). Tutti, ad ogni modo, fanno gerarchicamente rifermento ad un “capo”, all’allenatore.
Il presupposto perché si possa vincere, quasi sempre, è che – qualunque sia la situazione e l’interazione tra queste componenti – si riesca a remare tutti nella stessa direzione. Lo è, a maggior ragione, quando si è in difficoltà.
Ce lo spiega Chiellini, che in questi giorni è molto loquace.
Si può superare un momento difficile, ma ci vuole unione all’interno di un gruppo di lavoro.
Sono dichiarazioni rilasciate un paio di giorni fa, quindi più che mai attuali. Serve unione, che evidentemente non sempre c’è stata in questi primi mesi.
Se un gruppo di lavoro condivide ed è convinto di quello che sta facendo, anche se l’idea non è del tutto corretta, poi la porta in porto. Se l’idea è corretta ma il gruppo di lavoro non è convinto di portarla avanti, non potrà essere vincente.
Chiellini dice che se lo spogliatoio non è unito e compatto, non si riesce a fare gruppo e a raggiungere tutti insieme i risultati, lottando l’uno per l’altro e dandosi una mano per giocare da (e di) squadra. Si sta rivolgendo direttamente ai suoi compagni (è il leader carismatico), perché è lì che va trovata l’unità d’intenti. In questo contesto, si possono anche inserire le recenti dichiarazioni su Ronaldo che produceva effetti divisivi sul gruppo con le sue licenze poetiche. Lo abbiamo letto a più riprese: ora serve difendere tutti di squadra, ritrovare lo spirito di sacrificio, la voglia di lottare insieme e di assumersi le responsabilità non lasciando che se le prendesse tutte e solo “la stella” del gruppo. A prescindere, anche dinanzi a idee (o gestioni) sbagliate, con maggiore compattezza si sarebbe potuto e dovuto fare meglio, di più.
Così gli ha fatto eco Bonucci:
Abbiamo iniziato a mancare un po’ nel nostro lavoro quotidiano, nell’umiltà, nel sacrificio, nella voglia di esserci giorno dopo giorno per il tuo compagno di squadra. Negli ultimi anni, penso si vedesse.
Sono autocritiche, certamente apprezzabili. Non le uniche. Chiellini aggiunge anche altro. Dice che anche idee di calcio sulla carta “corrette” (es. quelle tese ad un calcio più “contemporaneo?) non bastano se poi non c’è in tutti, nei leader in primis, la volontà di accettarle (avrete colto tutti il riferimento a Sarri), e questo fa capire ancora di più quanto importanti siano le dinamiche di spogliatoio e quanto possano incidere, a volte pure più della stessa tattica. Il riferimento è a “qualcuno” che di recente ha provato a rovesciare le gerarchie (1° allenatore, 2° giocatori), combinando un casino (autocritica apprezzata).
Io in primis in passato ho sbagliato ad andare oltre quelle che erano le mie competenze e si sono creati problemi.
Questo ci porta alla inevitabile domanda: premesso tutto questo, quindi, come siamo messi con Allegri? Le sue idee sono condivise da tutti? Il gruppo è compatto?
Non è automatico. Quando venne esonerato, tre estati fa, c’era già un gruppo di giocatori che non andava d’accordo con la sua proposta calcistica o con i suoi metodi. E, a dire il vero, Allegri non solo ne era consapevole, ma arrivò a compilare una lista di calciatori da epurare. Alla fine fu epurato lui, come spesso accade agli allenatori.
Vi posto un editoriale del 13 aprile scorso dell’amico Guido Vaciago. Rileggiamolo insieme.
«Ho lasciato la Juventus perché mi avevano mentito sul modo di giocare. Dicevano che volevano un gioco più offensivo, ma alla fine non era così». La sassata di Dani Alves getta scompiglio nello stagno bianconero, dove da tempo gorgoglia il dibattito sullo filosofia da adottare. Dani Alves, in realtà, non dice niente di nuovo, ma ribadisce un concetto che qualche tempo fa era stato espresso anche da Kingsley Coman, a proposito delle ragioni che lo avevano spinto lontano dalla Juventus (la corte di Guardiola che lo aveva sedotto con un’idea di calcio più offensivo). E, in fondo, ricalca il pensiero non espresso pubblicamente, ma fatto circolare nell’ambiente anche da altri giocatori che la Juventus non l’hanno lasciata e che tre stagioni fa borbottavano sullo stile di Massimiliano Allegri (da Alex Sandro a Dybala, passando per Douglas Costa e arrivando, ovviamente, a Cristiano Ronaldo, giusto per citare i più importanti). Chiamatela “moda”, se siete contrari, chiamatela “rivoluzione inevitabile” se siete a favore, ma al netto delle opinioni c’è un fatto inconfutabile: in Europa i giocatori di qualità vogliono giocare in modo più propositivo e per attirarli serve anche quello. L’omelia sul gioco italiano che naufraga in Champions è stucchevole se sfocia negli integralismi, ma contiene una solidissima verità: in Europa si gioca così. E i più bravi, fra i giocatori, traggono ispirazione da lì, non dal risultatismo esasperato che tende a premiare in Serie A.
“Tendeva”, diciamo noi da 2-3 anni. E un po’ si sta vedendo, mi pare. Occhio: questo è un articolo che parla di altro, ma il campo poi è e resta comunque sovrano, come sempre, e devi dimostrare lì la bontà delle tue idee.
Ma restiamo sul tema spogliatoio: al di là del fatto che si possa accusare qualche giocatore di aver usato la “scusa” del gioco per andarsene o per chiedere più soldi (ma io ricordo anche Higuaìn che litigò con Allegri e che oggi racconta quell’esperienza dicendo “Mi faceva giocare centrocampista centrale!”, o Mandzukic che si rifiutò categoricamente di fare un’altra stagione da esterno, o Bonucci che si beccò lo sgabello, ecc…), resta il concetto di base che non a tutti possa piacere il modo di interpretare il calcio di Allegri (succede a noi tifosi, succede ai giornalisti, succede agli addetti ai lavori… perché non dovrebbe succedere tra calciatori che sono i protagonisti e che si mettono in gioco in prima persona?).
Quindi, tornando alle parole iniziali del capitano, per uscirne – visto che una spaccatura sul modo di intendere il calcio esisterà probabilmente anche tra i giocatori (c’è stata in passato, è irrealistico pensare non possa ripresentarsi a sto giro) – serve unità. Serve riuscire tutti a mettere da parte le differenze e fare tutti insieme quello che viene detto, con convinzione e dedizione. Anche se non si è d’accordo. Anche se si è penalizzati individualmente. Anche se così facendo devi correre di più, o ricevi meno palloni, o non si crede in generale al 100% che sia un’idea di calcio corretta, o moderna, o quello che volete.
Al tempo stesso, è compito poi dell’allenatore cercare di trovare la famosa “quadra” cercando soluzioni “di campo” (e non smetteremo mai di sottolineare l’importanza di questo aspetto) che esaltino i giocatori, coinvolti e responsabilizzati nell’obiettivo comune da perseguire, perché come dice Chiellini:
La ricerca di un obiettivo comune riesce a dare comunque risalto ai singoli.
Non se ne esce, altrimenti. E sì, se ne può uscire.
Successe proprio il secondo anno di Allegri, quando l’inizio fu altrettanto disastroso e l’allenatore si ritrovò in enormi difficoltà. Come ne uscimmo fuori? Con una riunione di spogliatoio, con Allegri tenuto fuori dalla porta e col gruppo che si confrontò e si ricompattò. Certo, c’erano ben altri calciatori (da Buffon ed Evra in poi). Ma si propose di fare un passo indietro tatticamente (e Allegri, intelligentemente, accettò), di tornare a vecchie certezze come la difesa a tre e ad un gioco più congeniale ai leader, e ciò portò quel gruppo a ritrovare compattezza e compiere quella meravigliosa rimonta che ancora oggi ricordiamo col sorriso.
Ma è anche quello che successe, questa volta più su iniziativa dell’allenatore, l’anno della finale di Cardiff. Non stava funzionando nemmeno allora, e il centrocampo non pareva avere le qualità sufficienti per giocarsela con altri più attrezzati (Sturaro? Davvero?). E allora Allegri trovò una soluzione che stravolse tutto, che travolse gli animi del gruppo e riaccese l’ardore del coraggio, anche tra i tifosi: dentro tutti i più forti, senza troppi calcoli. Certo, la pensò a tavolino, ovviamente. Certo, c’era anche del lavoro tattico dietro. Certo, fu una grande trovata mettere lì Mandzukic e proporre il centrocampo a due. Fu una mossa che compattò il gruppo, o quantomeno i giocatori più forti, e li spinse a compiere l’ennesima impresa (purtroppo con epilogo doloroso).
Non sempre ha funzionato. L’ultima stagione di Allegri, ad esempio, e ne abbiamo parlato fino alla nausea, ci fu il tentativo di cambiare modo di giocare che sintetizzammo con “la Juve di Manchester”. Tentativo cui Allegri non credette fino alla fine (anche causa qualche infortunio) e che a mio avviso fece tornare indietro sui suoi passi la squadra, con evidenti ripercussioni psicologiche sul gruppo che perse certezze e chiese a gran voce (Bonucci, Ronaldo) di giocare per fare la partita e dominare gli avversari (come al ritorno con l’Atletico), piuttosto che fare calcoli.
Veniamo a quest’anno, al ritorno di Max. Evidentemente, tutto quello che abbiamo detto finora non deve essere né facile né scontato. Un conto è trovare le parole giuste per esprimere dei concetti in un’intervista, e tutt’altro conto è poi fare in modo che nella pratica si dia seguito alle buone intenzioni.
Allegri, finora, ha puntato quasi tutto sulla disciplina, memore proprio di quanto accaduto nel finale del suo primo ciclo e avendo sentito come fosse ulteriormente deteriorata la situazione nei 2 anni successivi in cui non si è risolta (col calciomercato) la spaccatura tra le diverse anime (parliamo sempre di idee di calcio) dello spogliatoio, non lo si è resettato (nonostante magari le intenzioni fossero proprio quelle) e lo si è tenuto insieme con il nastro adesivo.
Poi c’è il campo. Lì il “tutti per uno, uno per tutti” deve comunque trasformarsi in un’idea di gioco efficace, vincente. Perché, al di là dei discorsi che abbiamo fatto, se dai risposte di campo sbagliate ai problemi di campo, di strada non ne fai a prescindere.
Allegri tatticamente è tornato lo stesso di prima, pur avendo in gran parte un gruppo nuovo. Ad inizio articolo ho usato un’espressione, “leader tecnici”. A mio avviso, sono loro che bisogna coinvolgere e far sentire importanti, mettendoli al centro del progetto e facendo in modo che diano il massimo e credano fermamente in quello che fanno. Perché poi le partite te le fanno vincere principalmente loro (o non sarebbero leader tecnici). Se tu coinvolgi correttamente i leader tecnici della squadra, sei già a buon punto. È lo stesso discorso che facevamo per Pirlo. Scegli su chi puntare e puntaci senza troppe rotazioni (abbiamo giocato due mesi appena!): fai ruotare gli altri, semmai, in base a condizione e rendimento nelle singole gare. E adatta modulo e schemi ai tuoi leader tecnici, per metterli nelle condizioni migliori di esprimersi. Non si fa così?
Già, ma chi sono i leader tecnici di questa squadra? Corrispondono ai leader di spogliatoio? La pensano allo stesso modo? Hanno esigenze e idee uguali? Quali sta favorendo l’allenatore?
L’anno scorso, se c’è una cosa che avevamo capito nella stagione di Pirlo, è che saremmo dovuti ripartire da alcuni giocatori: De Ligt, Chiesa, Danilo (con compiti di costruzione) e Cuadrado (terzino/regista) su tutti. In molti auspicavano addirittura un cambio fascia (specie dopo l’eliminazione con il Porto, quando in conferenza stampa a metterci la faccia ci andarono i “giovani”), proprio per dare un segnale di discontinuità e per trasformare uno di quei quattro leader tecnici (Ronaldo non lo conto) in qualcosa di più. Si diceva anche che avremmo dovuto provare ad inserire maggiormente Dybala, Arthur e Kulusevski, i primi due frenati da infortuni e lo svedese in crescita nel finale di stagione (vedi finale di Coppa Italia).
Domandiamoci: si sta facendo di tutto per metterli al centro del villaggio compattando così attorno a loro la squadra? Si è pensato ad un abito cucito su misura per loro, o si è chiesto loro di adattarsi a qualcosa che non li convince o non li fa rendere come lo scorso anno? E prima ancora: ma siamo sicuri che per Allegri siano loro i leader tecnici della Juventus e non lo siano chessò i Bonucci, i Chiellini, gli Alex Sandro, i Morata, i Rabiot, o giocatori già allenati in passato e di cui si fida come Szczesny, De Sciglio e Bernardeschi?
Queste sono domande alle quali non ho necessariamente una risposta, e le lascio a voi per discuterne assieme. Ma sono piuttosto certo che, come sempre, sia proprio l’interazione tra e con le varie componenti dello spogliatoio e lo stabilire delle giuste “categorie” (cit.) che determinerà il proseguo di questa stagione, già così compromessa, e forse del secondo ciclo di Allegri. Speriamo, visto che è stato annunciato un ritiro di una settimana, che possa servire per chiarirsi, confrontarsi e ritrovare, Chiellini dixit, unità e gerarchie.