Nel dopo partita di Italia – Cina, gara degli ottavi di finale del campionato del mondo vinta dalle azzurre, Gabriele Gravina, presidente della F.I.G.C, si presentava ai microfoni promettendo nel breve periodo le riforme necessarie perché si possa arrivare alla fine di un percorso al professionismo.
Detta così sembra un passo non troppo complicato da attuare visto e considerato che in giro per l’Europa tutte le nazioni più importanti, chi prima e chi dopo, ha già compiuto questo passo.
Ma allora perché in Italia è così complicato seguire questa strada?
Innanzitutto esiste una legge del 1981 che definisce come persone e sport professionistici
“… quegli atleti, allenatori, direttori tecnico-sportivi e preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito di discipline regolamentate dal CONI…”
Sono professionistici, attualmente in Italia, solo 4 sport (esclusivamente per il genere maschile) ovvero il calcio, il basket, il golf ed il ciclismo, quindi il cambiamento richiesto deve comunque prima passare da una modifica di questa legge a livello politico.
Qualche anno fa era stata proposta una modifica che avrebbe aggiunto la possibilità di ottenere lo stato di professioniste anche alle donne di quei 4 sport o allenatrici, preparatrici ecc ecc. Proposta bocciata immediatamente.
Prima di proseguire è però necessario chiarire un concetto fondamentale: è completamente sbagliato pensare che la richiesta a gran voce del professionismo in Italia vuol anche dire automaticamente ad una richiesta di parità salariale.
La partita salariale fra uomo e donna non esiste nel mondo del lavoro da quasi nessuna parte ed è impensabile (giustamente) che si faccia questo tipo di battaglia dove il business creato fra i differenti generi è enormemente diverso.
Neanche in America le fresche campionesse del mondo capitanate da Megan Rapinoe guadagnano nei club come i colleghi uomini e la loro battaglia, scandita anche dal pubblico di Lione in finale al grido di “Equal Pay, Equal Pay”, è contro la federazione americana che continua ad elargire premi e attenzioni nettamente maggiori alla nazionale americana maschile (differenze ingiustificate sia guardando i risultati sul campo sia dal lato economico dove le donne vendono più biglietti e generano più introiti per il marketing rispetto agli uomini) e per questo la nazionale di Jill Ellis ha addirittura presentato una class action a marzo contro la federazione per discriminazione di genere.
La richiesta di tutto il movimento calcistico italiano quindi non è assolutamente legata agli stipendi ma soprattutto ai diritti e alle tutele che oggi mancano.
Con l’entrata in campo delle società professionistiche maschili si è poi esasperato un paradosso che accompagna da tempo questo sport: ad una calciatrice che gioca in serie A viene chiesto un impegno da professionista con allenamenti quotidiani, continui viaggi, trasferte, ritiri, magari la nazionale, ecc ecc ma ha appunto pochissimi diritti e quasi nulle tutele: non esistono per esempio piani pensionistici, assicurazione, maternità ecc ecc.
Dalla parte delle società, invece, esistono ostacoli economici che impediscono di competere alla pari con le altre realtà europee, dove una qualsiasi squadra italiana non può offrire contratti superiori a 30.658 euro lordi annui a cui si possono aggiungere solamente rimborsi spese legati all’attività sportiva (vitto e alloggio) limitando così la possibilità di investimento.
In più c’è una limitazione nella durata dei contratti, che al massimo possono essere biennali.
Se è difficile comprare straniere forti è altresì complicato mantenere le proprie atlete migliori se una società estera bussa alla propria porta: sta solo alla giocatrice, come successo quest’anno alle maggior parte delle bianconere azzurre, compiere una scelta di cuore su soldi e status di professionista all’estero.
In tutto questo esiste però un rovescio della medaglia che potrebbe potenzialmente mettere in ginocchio la quasi totalità (esclusi i club professionisti maschili) delle società presenti.
Se da un lato il professionismo darebbe alle atlete le tutele e lo status richiesto ed ai top club italiani la possibilità di competere ad alto livello con ingenti investimenti, il cambiamento di status da dilettante a professionista graverebbe anche sulle società più “piccole” in costi ancora maggiori che si aggiungerebbero al bilancio annuale.
Se siete arrivati pazientemente fino a qui, capirete i perché ci vuole cautela ed è così complicato attuare un cambiamento che, oltre a rivoluzionare in parte il sistema sportivo italiano, deve contemporaneamente essere sostenibile per tutte le società interessate, dalla Juventus ad una squadra più piccola come l’Orobica Bergamo.
È un percorso più o meno lungo che deve portare necessariamente a salvaguardare e accontentare tutte le parti in causa e che magari può prendere spunto da quanto successo pochi giorni fa in Olanda (nazione in cui il calcio femminile come in Italia non è ancora professionalizzato) quando l’Ajax ha firmato un contratto d’impegno di parità contrattuale fra uomini e donne. Più semplicemente l’Ajax garantirà ai suoi atleti e alle sue atlete le stesse condizioni nei contratti per quanto riguarda la durata, il salario minimo garantito, assicurazione sanitaria, mantenimento dello stipendio in caso di lunghi infortuni e giorni di vacanza.
Questo storico accordo, se seguito dalle altre società, è un primo passo che può portare nel breve-medio periodo, anche la nazione vice-campione del mondo al professionismo.
In Francia, Germania, Inghilterra e poi Spagna più le nazioni storicamente nobili del nord (Svezia, Norvegia), il professionismo è presente anche da più di 10 anni e le rispettive federazioni investono parecchi soldi su questo sport.
Chi ha fatto più strada in questi ultimi anni è senza ombra di dubbio la Spagna (dove gioca nell’Atletico Madrid la nostra azzurra Elena Linari) in cui, nella stagione 2020/2021, entrerà anche il Real Madrid di Florentino Perez inglobando di Tacon.
In Inghilterra, la federazione ha ancora aumentato gli investimenti e Barclays sarà sponsor principale del campionato fino al 2024 pagando 500.000 euro annui (distribuiti a seconda della classifica a tutte le squadre) che si aggiungeranno al budget messo a disposizione dalla Football Association per lo sviluppo del calcio femminile inglese, superiore anche a quello degli Stati Uniti.
In Europa si viaggia veloce e anche chi è rimasto inizialmente indietro sta recuperando velocemente dalle nazioni che fanno locomotiva da anni.
Il calcio femminile è in Europa uno degli sport destinati a crescere maggiormente ed a diventare, anno dopo anno, sempre più seguito.
La Fifa da questo punto di vista ha raddoppiato gli investimenti ed è notizia di questi giorni che il prossimo mondiale sarà a 32 squadre anziché 24.
In Italia negli ultimi 20 anni ci siamo fermati quando gli altri sono partiti ed il percorso che porta verso l’élite mondiale passa necessariamente da un cambiamento che prima di essere legislativo deve essere culturale.
I passati mondiali hanno dimostrato come, abbattuti i pregiudizi, il calcio femminile può avere il suo spazio e coinvolgere tantissime persone: sta a Gabriele Gravina essere uomo di parola e dare a queste ragazze lo status che meritano.