Una ruleta oltre il tempo
Un paio d’anni fa, quando per Rivista Undici scrissi questo pezzo sulle signature moves più iconiche della storia del calcio, lessi un vecchio articolo del 2004 su Repubblica in cui Maurizio Crosetti scriveva che siccome la moglie di Zinedine Zidane si chiamava Veronique allora era come dire «che Zizou ha sposato un dribbling». Un’espressione che trovai – e trovo tutt’ora – molto evocativa, perfettamente aderente a quegli ideali di ingenua spensieratezza che accompagnano il calcio visto con gli occhi di un ragazzino, e che mi riportò a quell’estate del 2001. Vale a dire la dimensione temporale in cui la mia mente ancora collocava la celebre battuta dell’Avvocato Agnelli su chi portasse i pantaloni in casa di ZZ e dove proprio la signora Veronique veniva individuata come la principale responsabile del trasferimento al Real Madrid perché, dopo cinque anni, si era improvvisamente accorta che a Torino non c’era il mare.
In realtà, facendo una rapida ricerca in rete, mi sono poi imbattuto in questo lancio d’agenzia dell’adnkronos risalente all’aprile del 1999, in cui Veronique non intendeva assolutamente passare per colei che avrebbe posto fine alla militanza bianconera del marito – «Non è vero che mi manca il mare, ho sempre vissuto in una città di montagna. Al mare ci vado d’estate, nel sud della Spagna, una volta l’anno» – ribadendo come l’unico pensiero del campione franco-algerino in quel momento fosse la semifinale di ritorno di Champions League contro il Manchester United: «Il contratto di mio marito scade nel 2004, non domani. Domani c’è una partita importante ed è a questa partita che lui sta pensando. A questa e a quelle future con la Juventus».
Il 9 luglio 2001 Zinedine Zidane lascia la Juventus e si trasferisce al Real Madrid per la cifra record di 150 miliardi, secondo galactico che Florentino Perez aggiunge alla sua già lussuosa collezione dopo Luis Figo. Una settimana dopo, mentre è in Russia per rendere omaggio a Juan Antonio Samaranch in procinto di lasciare la presidenza del CIO, Gianni Agnelli commenterà: «Continuerò ad andare a vederlo giocare ma alla fine è stato più divertente che utile», pur ammettendo che «ci mancherà non c’è ombra di dubbio, ma se dopo cinque anni, anche per fare piacere alla moglie, che è lecito, uno vuole cambiare… Non mi piace trattenere chi se ne vuole andare». Tanto più dopo una stagione tipicamente zidanesque – quindi senza mezze misure – nei suoi alti e bassi.
Questione di testa
Lo Zidane che si presenta a estate inoltrata nel ritiro di Chatillon è, senza mezzi termini, il calciatore più forte del mondo. Ha guidato la Francia alla vittoria dell’Europeo con alcune prestazioni di onnipotenza assoluta – la semifinale contro il Portogallo costituirà per anni l’archivio storico di account Twitter che vanno oggi per la maggiore come Stop That Zizou – è all’apice del suo prime tecnico, fisico e psicologico, ha fissato i nuovi standard di eccellenza di un ruolo, quello del trequartista, che è diventato il must have di ogni grande squadra europea.
Il suo status di stella di prima grandezza non è, non può essere, messo in discussione, le motivazioni per continuare a dimostrarlo e legittimarlo con la squadra che gli ha permesso di diventarlo forse sì: «Oramai ho vinto tutto, mi manca soltanto la Coppa dei Campioni. Ne ho perse due in finale, ma se quest’anno la vincessi, potrei anche andarmene. A quel punto avrei praticamente chiuso un ciclo, dalla Juve avrei avuto tutto. Poi, è chiaro, potrei anche rimanere, ma chissà» rivela sornione a inizio agosto ai giornalisti, anticipando quello che sarà il leit motiv della stagione post naufragio di Perugia. Un’annata particolare, a partire dal calendario.
Le Olimpiadi di Sydney hanno infatti costretto a posticipare la partenza del campionato all’ultimo weekend di settembre, mentre Coppa Italia e Champions League cominciano a metà mese. Il 13 settembre la Juventus è di scena al “Volkspark-Stadion” di Amburgo per provare ad esorcizzare uno dei tanti fantasmi delle sue notte europee: contro l’abbottonatissimo undici di Frank Pagelsdorf, schierato con un antidiluviano 5-4-1, Carlo Ancelotti opta per il 4-3-1-2, con Zidane alle spalle di Inzaghi e Del Piero e vertice alto di un rombo che vede Fabian O’Neill davanti alla difesa. Rivista con il sempre inutile senno del poi la partita non è che il tragicomico prequel di ciò che avverrà in un girone sulla carta abbordabile, che comprende anche Deportivo La Coruña e Panathinaikos: la Juventus si porta sull’1-3 senza grossi problemi – notevole l’assist di esterno di Zidane per l’1-2 di Inzaghi – prima di un terrificante blackout collettivo che porta i padroni di casa a ritrovarsi in vantaggio 4-3 a otto minuti dalla fine. Solo un rigore di Inzaghi all’88’ evita la sconfitta che però arriva dieci giorni dopo in casa contro il Brescia nel ritorno degli ottavi di Coppa Italia.
Il (presunto) fattore campo si ritorce contro in Europa: i 4 punti nel doppio turno casalingo con Pana e Depor complicano ulteriormente una situazione aggravata dall’espulsione di Zidane al 68’per un’entrataccia in ritardo su Scaloni: «Ora come ora non possiamo fare molto per evitare le critiche: ce le prendiamo, ma la Juve vera si vedrà dopo la sosta» dice senza troppa convinzione Ancelotti dopo lo scialbo 0-0 con i galiziani del 26 settembre, quasi contestualmente alla decisione della società di prolungare il ritiro post ko con le “rondinelle” fino alla trasferta di Napoli, prima giornata di campionato distante ancora una settimana. Quando, un mese dopo, a Torino arriva l’Amburgo la stagione bianconera vive già il suo primo snodo decisivo. L’1-1 strappato con le unghie e con i denti al “Riazor” impone la vittoria per poi andarsi a giocare il tutto per tutto in casa di un Panathinaikos che ha mangiato alla Juventus punti, certezze, stabilità emotiva. Quella che al minuto 29 del primo tempo manca a Zidane che si produce in un non richiesto antipasto di quel che sarebbe stato di lì a sei anni in quel di Berlino:
La Juve finisce lì. Cioè ci sarebbero anche l’espulsione di Davids per doppia ammonizione tre minuti dopo con i tedeschi già sullo 0-1, il raddoppio di Yeboah, l’inutile rete di Kovacevic, il disastro di Atene due settimane dopo che permette a Paulo Sousa di continuare nella sua personale interpretazione di Bela Guttmann; ma il defining moment è tutto lì, in quel gesto di rabbia, frustrazione e chissà che altro all’interno di quello che Emanuele Gamba definirà su Repubblica come «cinque minuti di irrefrenabile trip psicologico» in cui «la Juve ha consegnato ai tedeschi la vittoria e al mondo intero una figuraccia colossale».
E poco importa che Moggi annunci urbi et orbi punizioni esemplari per i due reprobi. Ad inizio novembre alla Juventus è già rimasto solo il campionato.
IL trequartista
Sui più rassicuranti e familiari prati della Serie A la storia sembra essere tutt’altra. Zidane è, con Totti, Rui Costa e Veron, uno dei pochi giocatori in grado di spostare praticamente da solo gli equilibri di un torneo che vede almeno tre squadre favorite: la Juventus, appunto, e le due romane. Nelle prime tre partite – sette punti tra Napoli, Bari e Milan – la statline del franco-algerino racconta di un gol e tre assist, prima di un periodo grigio come il novembre torinese e una delle peggiori seconde maglie della storia recente, che coincide con la prima fuga scudetto dei giallorossi di Fabio Capello: i bianconeri sono chiaramente (e forse fin troppo) dipendente da un campione la cui continuità mentale è costantemente messa a dura prova da un contesto che gli comincia a stare sempre più stretto giorno dopo giorno.
Significativo, in questo senso, quello che scrive Alberto Cerruti sulla Gazzetta dello Sport dopo il 2-0 di Reggio Calabria contro la Reggina del 5 novembre, in cui Zidane dimostra di «avere i lampi dei giorni migliori» anche se «si accende a intermittenza»: dettaglio non da poco quando sei, di fatto, l’unica opzione credibile per provare a sfruttare al massimo le potenzialità di un reparto offensivo che a Del Piero, Inzaghi e Kovacevic ha visto aggiungersi anche David Trezeguet, l’uomo di Rotterdam, attaccante da 62 gol in 123 presenze con il Monaco delle meraviglie di fine anni Novanta.
Dopo l’inopinato ko interno contro l’Udinese alla quarta giornata – con il numero 21 sostituito quasi per disperazione a metà partita – la Juventus raccoglie appena 9 punti nelle successive cinque partite, nonostante Zidane torni a dare notizie di sé contro il Verona e, soprattutto, il 3 dicembre a San Siro contro l’Inter di Marco Tardelli, subentrato a Marcello Lippi dopo il celebre sfogo di Reggio Calabria: in meno di 10’ manda in gol prima Trezeguet con il più classico dei “basta spingere” e poi sé stesso, con un terrificante sinistro dalla distanza che piega le mani a Frey.
Ma, esattamente come quella di Amburgo, la serata milanese è la rappresentazione plastica di una tendenza che caratterizzerà l’intera stagione dei bianconeri, che sprecheranno più volte comode situazioni di vantaggio, lasciando per strada punti sanguinosi. A Milano tocca a Blanc e Di Biagio anticipare di sei mesi quello che sarebbe accaduto alla ventinovesima giornata contro la Roma: in quel caso a Zidane basteranno appena sei minuti per confezionare un assist (a Del Piero) e un gol da fuori area, prima che Nakata e Montella ristabiliscano lo status quo ante, archiviando il discorso scudetto.
Eppure non mancano i momenti in cui Zidane piega letteralmente la partita al suo volere, deformando tempo e spazio a piacimento, imponendo quell’andamento, sincopato e lento solo in apparenza, che lui e lui soltanto poteva rendere efficiente ed efficace in un contesto competitivo di alto livello.
Nel ritorno contro il Milan va a cercare e prendersi un gol di una grazia e una levità assolute, che rappresenta la trasposizione calcistica delle acque del Mar Rosso che si aprono al passaggio di Mosè; contro la Fiorentina al “Franchi”, fascia di capitano al braccio, segna, è uomo ovunque, porta Mancini a sostituire per disperazione il povero Sandro Cois, si produce in un dribbling su Adani senza sapere che, anni dopo, quel fotogramma diventerà una gif ad uso e consumo di chi sosterrà che chi è stato dribblato da Zidane – quindi il 90% dei giocatori dell’epoca della Serie A e non solo – non può permettersi di esprimere un’opinione sulla Juventus; al “Dall’Ara” di Bologna gioca quella che è, probabilmente, la sua più bella partita in bianconero, o comunque quella in grado di rivaleggiare con il clinic riservato all’Ajax di van Gaal nella primavera del 1997.
Ma nemmeno uno così può rimediare da solo alle lacune strutturali di una rosa in disfacimento – oltre a lui andranno via in 15, tra cui Inzaghi, van der Sar, Kovacevic, Bachini, O’Neill, Fonseca – e ai punti persi in casa contro Fiorentina, Brescia, Lecce, Atalanta. Così il 17 giugno 2001, uno Juve-Atalanta che passerà alla storia per essere finito in Santa Maradona di Marco Ponti e per l’interruzione di quasi dieci minuti a causa di un’invasione di campo di un pubblico non troppo sabaudo nella circostanza, Zidane si congeda da Torino e dalla Juventus, sostituito alla mezz’ora del primo tempo da Inzaghi per un problema muscolare. Cinque giorni dopo il procuratore Alain Migliaccio “ufficializza” quello che tutti sanno e stanno cercando di ignorare già da un po’: «Zidane ha scelto il Real e non intende tornare indietro sulla sua decisione».
Domenica, interno, giorno
Il fatto che (anche) con i soldi di Zidane fosse stata rifatta la squadra – e che squadra: Buffon, Thuram, Nedved e il Salas pre-infortunio di Bologna – era una circostanza che al me quattordicenne importava il giusto. Ero perfettamente conscio che uno così non sarebbe passato mai più e quindi continuavo a cercarlo ovunque, illudendomi che la mancanza non sarebbe stata realmente tale se fossi riuscito a mantenere un contatto “domenicale”. Con quale maglia era diventato un dettaglio persino irrilevante.
A quel tempo il modo migliore per rimanere aggiornato sui campionati esteri era la rubrica appositamente dedicata di Guida al Campionato, che andava in onda sulle reti Mediaset giusto qualche minuto prima che mia madre cominciasse ad alzare la voce di due ottave alla volta per richiamarmi all’ordine, quindi alla sacra tavola con tutta la famiglia riunita. Fu proprio così che vidi il gol al Deportivo La Coruña, un gol di Zidane “alla Zidane”: era il 5 gennaio 2002 e ZZ aveva tolto il velo a un qualcosa che non gli avevamo ancora mai visto fare, l’equivalente di un killer crossover di Allen Iverson utilizzando la suola, anzi le suole, per spostare il pallone da sinistra a destra e poi ancora a sinistra, disponendo a piacimento del diretto avversario come un grande puparo che si limita a muovere sapientemente i fili.
Per qualche motivo ricordavo che quello fosse il primo gol in assoluto di Zizou in maglia merengue ma, esattamente come accaduto per la voglia di mare di Veronique, una rapida ricerca in rete ha svelato la verità: era il primo gol dopo tre mesi di digiuno dall’ultimo – il quarto consecutivo nelle quattro partite disputate da metà settembre, realizzato nel ko in trasferta contro il Las Palmas il 3 ottobre – con la pressione della stampa e del sempre più esigente pubblico del Bernabeu si stava facendo sempre più insostenibile.
Poi ho capito che anche nell’errore poteva, e può ancora, esserci un elemento di ragione, anzi di ragionevolezza. Quel gol può realmente essere considerato il primo nella misura in cui rappresenta la definiva cesura con una momento della sua (e della mia) vita che lasciava il posto a qualcosa d’altro, a qualcosa di diverso, a qualcosa di più. L’avremmo capito, io e lui, nella notte di Glasgow qualche mese dopo. Ma questo, naturalmente, era già tutto parte dell’ordine naturale delle cose, come il fatto che a Madrid non avranno – e mai hanno avuto – il mare ma le Champions League sì.