di Andrea Lapegna
Nella partita da vincere a tutti costi per entrambe le squadre, vince quella che ne aveva più necessità.
[mks_dropcap style=”square” size=”52″ bg_color=”#F2F2F2″ txt_color=”#000000″]D[/mks_dropcap]opo lo shock psicologico e di classifica della sconfitta interna contro il Napoli, la Juventus arriva al big match di cartello della trentacinquesima giornata con il morale in altalena. Se la vittoria rimane un obiettivo ineluttabile, Allegri ha voluto controbilanciare il peso emotivo della partita chiedendo “spensieratezza”. Proprio la leggerezza e la mente libera sono forse gli ingredienti mancati nello scontro scudetto settimana scorsa, e al tempo stesso in molti ritengono che la Juventus giochi meglio senza pensieri – vedasi la gara di Madrid. La spensieratezza si traduce così in una formazione offensiva ma bilanciata, schierando quello viene considerato da molti (incluso lo scrivente) una possibile soluzione al problema del terzino destro che si trascina da luglio. La formazione recita: Buffon; Cuadrado, Barzagli, Rugani, Alex Sandro; Khedira, Pjanić, Matuidi; Douglas Costa, Higuaín, Mandžukić.
Se riuscite ad abbandonare le passioni dei tifosi, sarete d’accordo con me nel dire che la bellezza del campionato si vede dal fatto che nessuna partita è già inutile, nessuna squadra è già veramente in vacanza. L’Inter vive la partita contro la Juve come un crocevia se possibile ancor più fondamentale, in grado di regalare alla società il maggiore incasso di tutti i tempi in Serie A, e ai tifosi la possibilità di fare uno sgambetto decisivo ai rivali bianconeri. Il tutto incastrato in una lotta Champions serratissima. Spalletti schiera così la formazione tipo in questo momento: Handanovic; Cancelo, Skriniar, Miranda, D’Ambrosio; Vecino, Brozović; Candreva, Rafinha, Perišić; Icardi.
La rottura dell’equilibrio
Le scelte dei due tecnici regalano una partita impostata più che mai sui duelli individuali, in tutte le zone del campo. Le due formazioni (4-2-3-1 e 4-3-3) sono spartiti diatonici e complementari: Spalletti e Allegri giocano sulla stessa scacchiera, in cui l’unica variabile differente – la direzione del triangolo di centrocampo – è proprio quella che fa combaciare e sovrapporre gli schieramenti l’uno sull’altro.
Se buona parte del pubblico poteva legittimamente aspettarsi un inizio tambureggiante da parte di entrambe le squadre, lo scacchiere ha consegnato un primo quarto d’ora decisamente interlocutorio. Diversi sono infatti i meccanismi in atto per limare gli artigli agli avversari. Nella Juventus il piano gara chiede alla squadra la ricerca dell’ampiezza (come si evince dalle posizioni medie in possesso del primo tempo) e in particolare a Cuadrado di prodigarsi in una presenza continua e decisamente alta nella metà campo avversaria. A seconda dell’altezza del pallone, Costa sceglieva se rimanere largo (con Cuadrado ancora basso) o accentrarsi portando via uomini e liberando corridoi al compagno. I cambi gioco hanno qui la funzione di disordinare le linee avversarie, contando di rubare un paio di tempi di gioco al riassetto degli avversari.
Ed effettivamente nel primo tempo il giochino è riuscito più di una volta, complice la pessima copertura di Cancelo. Poco dopo, Candreva prende spunto dal compagno e si stacca troppo da Costa sugli sviluppi di un calcio d’angolo. Uno a zero Juve.
Il rosso a Vecino condiziona enormemente la partita di entrambe le squadre. Spalletti cerca di ovviare all’inferiorità a centrocampo abbassando il raggio d’azione dei tre trequarti, e schierandosi in non possesso con un 4-4-1 in cui la priorità è raddoppiare sugli esterni. Così, Rafinha scende accanto a Brozović, e seppur utile in dinamismo e corsa in avanti, la sua intelligenza calcistica risentirà della lontananza dalla porta. In realtà poi i tre giocatori più avanzati non rinunciano al pressing alto, su cui Spalletti aveva probabilmente preparato la partita. Almeno inizialmente, questo nuovo assetto però ha facilitato il fraseggio della Juventus, che una volta superata la prima pressione trovava avversari mediamente lunghi, con Rafinha e Brozović non proprio adatti a difendere all’indietro.
Le difficoltà della Juventus
Tuttavia, il pressing dell’Inter è migliorato in tempismo e coordinazione, e complice una paura autodistruttiva dei difensori bianconeri, è riuscito a rinchiudere la Juventus nella propria metà campo per larghi tratti della ripresa. Rugani soprattutto è sembrato terribilmente sensibile alla “palla che scotta”, auto-imponendosi il lancio alla viva il parroco ogni volta che non poteva contare su un appoggio sicuro in orizzontale. In possesso consolidato, per quanto le trame fossero positive, è mancato il riferimento tra le linee; Higuaín, scendendo, è parso soffrire la fisicità delle uscite di Miranda e Skriniar, forse per la stanchezza di questo finale di stagione. Senza palla la Juventus ha dato l’impressione di non essere a proprio agio nel prendere la circolazione bassa agli avversari. Nonostante l’uomo in più, non riusciva mai a portare pressione con tempi e armonia, e le mezzali che hanno sbagliato con allarmante ripetitività i tempi della salita sul secondo portatore, scoprendo voragini gargantuesche alle loro spalle, che Pjanić ha dovuto provare a tappare alla meno peggio (rischiando grosso in più di un’occasione).
Nonostante le grida di Allegri, che invitavano la squadra ad aprire l’Inter in ampiezza e a cercare il secondo gol, con il passare del tempo la Juventus ha subito un’involuzione spaventosa in tutte le fasi di gioco. Più il cronometro scorreva, più la paura di perdere invadeva la mente dei giocatori. In questo contesto emotivo, un ruolo fondamentale l’ha giocato il pressing dell’Inter, encomiabile se non altro per lo sforzo – fisico, prima di tutto – di andare a prendere gli avversari in inferiorità numerica nella loro metà campo. Una tattica rischiosa, che ha allungato molto l’Inter ma che era anche la strada più logica da percorre in un contesto dove l squadra di casa non aveva più nulla da perdere. È un momento della stagione in cui la Juventus soffre tremendamente una pressione collettiva orientata all’uomo e portata con costanza in tutte le aree sensibili del primo terzo di campo. Già Lazio, Tottenham, e Napoli avevano scoperto questo nervo, su cui Spalletti ha calcato la mano anche con un uomo in meno. Nell’uscita con la palla, i difensori rimangono scolasticamente ancorati alla litania “controllo-testa alta-tocco-passaggio”, invogliando la pressione; i terzini non hanno la necessaria confidenza per cercare Pjanić o meglio ancora le mezzali (che per giunta se ne scappano altissime) e lo stesso Pjanić deve giocare sempre all’indietro e a pochi metri da Buffon. La squadra ha sbagliato ben 44 passaggi, perdendo la sfera in 38 occasioni. Il lavoro degli esterni nerazzurri è stato generosissimo: da un lato raddoppiavano sulle ali juventine, e dall’altro salivano in pressione quando la Juve si rifugiava il più indietro possibile. Candreva è stato ad esempio fondamentale nell’aiutare un Cancelo sembrato “imberbe” e poco scaltro nella marcatura.
Il finale
Il parziale ribaltone subito dalla Juventus è stato quindi la naturale conseguenza di una partita giocata con il freno mentale tirato al massimo. Indiscutibilmente, la paura di sbagliare porta a sbagliare, così come la voglia di vincere è una condizione necessaria e prodromica alla vittoria stessa. I cambi di Allegri hanno senza dubbio limato le criticità della Juventus – Khedira e Mandžukić non ne avevano più, né atleticamente né mentalmente, né soprattutto avevano più posto nel contesto tatticamente disastrato del secondo tempo. Ma la vittoria non si può spiegare in maniera soddisfacente solo alludendo alla qualità portata da Dybala e Bernardeschi, né con l’avanzamento di Cuadrado o con le sue corse in underlapping, pure decisive. Il riferimento e l’appoggio tra le linee garantito da Dybala – e mancato durante tutta la partita – ha certamente aiutato il fraseggio a creare i presupposti per la rifinitura, ma da solo non basta a spiegare il ribaltamento del risultato. È difficile anche ricamare sulla narrativa del cuore oltre l’ostacolo, dal momento che per 70 minuti buoni la Juventus è sembrata essere in balia della partita e aver paura della propria ombra. Le parole di Allegri possono invece offrire un angolo interessante sul finale: interpretate a più non posso, secondo il sottoscritto significano che col cronometro che corre deciso verso la fine, la squadra tende a consegnare il pallone ai giocatori più dotati tecnicamente e a pregare. Qualcuno ha esaudito quelle preghiere.
Seguite Cuadrado, dall’inizio alla fine. A 41:23 sul cronometro, Candreva era andato a fare il sesto a sinistra della linea difensiva. Lui capisce che Costa glielo avrebbe tenuto “aperto”, e sceglie di associarsi con Dybala per passare in mezzo e puntare Santon.
Alla luce dell’idiosincrasia tattica manifestata nell’arco di quasi tutta la partita, rimane difficile giudicare la prestazione della Juventus. Se tutti gli spettatori tendono ad accordare un ruolo immaginifico all’emotività e agli aspetti psicologici della partita, questi si sono mostrati in tutta la loro cruda efferatezza. Un esempio su tutti: Cuadrado nel ruolo più o meno inedito di terzino. Deputato alla copertura di Perišić, specialmente per le corse verso il fondo e gli uno contro uno, si è lasciato ammonire scioccamente dopo 4 minuti. Condizionato dal cartellino, ha sempre lasciato un paio di metri al primo controllo del croato, creando il contesto tecnico acché l’avversario potesse arrivare sul fondo con costanza. Esemplificativo il secondo gol dell’Inter, dove pure di dimostrare la propria buona fede ed evitare un possibile secondo giallo, lascia andare l’avversario in area indisturbato. Condisce il tutto con un paio di letture sbagliate, forse condizionate a loro volta da un posizionamento non ottimale rispetto all’avversario. Eppure, fornisce l’assist per il primo gol; nel secondo tempo crea il secondo gol grazie all’associazione con Dybala: si libera della scimmia sulla spalla e comincia, assieme ad altri compagni e con 80 minuti di ritardo, a puntare gli avversari.
E ora?
La Juventus ha vinto la sua partita, ma sta camminando su un equilibrio più che precario. In mancanza della forza mentale portata da un vantaggio più ampio sul Napoli, la gestione degli incontri avuta sinora ha dimostrato di non funzionare più. La solidità emotiva della Juventus ha ormai lasciato il posto ad un panico caotico che mancava da molto tempo in quel di Torino. Cosa può allora arrestare il circolo vizioso in cui sembra impantanata la squadra? È chiaramente tardi per portare i dovuti correttivi tattici alla squadra, e a parere di chi scrive ci sono due strade che possono condurre al settimo scudetto consecutivo. Il primo scenario è quello secondo cui la squadra si rende conto di aver svoltato emotivamente con questa vittoria e riprende fiducia nei propri mezzi con un guizzo d’orgoglio (e contestualmente Allegri utilizza i giocatori più tecnici dall’inizio); il secondo scenario vede la Juventus continuare a camminare su dei gusci d’uovo per le prossime tre partite, vincendole con la forza degli episodi (e della fortuna), mettendo così in difficoltà anche la logica più ferrea e attentando alle coronarie di 15 milioni di tifosi.